Le mie nove vite
Da Mandalay a Firenze. L’autobiografia dell’ultima principessa birmana
La principessa con il talento per l'irrequietezza. Gian Luca Favetto
Si provano i due sentimenti che sempre si provano di fronte ai nostri simili, ma moltiplicati per nove, perché quella di June Bellamy è stata un’esistenza mortale moltiplicata per nove. Enrico Dal Buono
Una storia che affascina, uno sguardo cosmopolita sul mondo, una personalità che, una volta incontrata, non può essere dimenticata.
Nata da una nobile birmana e un avventuriero australiano, June Rose Yadana Bellamy – personalità ammaliante, determinata, impavida – incarna l’incontro tra due mondi, Oriente e Occidente.
June Bellamy ha vissuto, indomabile, una vita senza eguali. O meglio, ne ha vissute almeno nove, risorgendo ogni volta dalle sue ceneri come un’araba fenice: c’è la neonata che regala l’ultimo sorriso a un vecchio principe senza trono, la bambina fuggita in India mentre i giapponesi invadevano la Birmania, la campionessa di tennis che fa girare la testa ai piloti d’aereo, la giovane mamma che entra da sola nella giungla per liberare il marito rapito dai ribelli comunisti, la donna che abbandona tutto per un nuovo amore, l’artista che espone i suoi quadri a Londra e a Dallas, l’ex first lady accusata di essere una spia occidentale, l’insegnante di cucina che fa la spesa al mercato rionale.
La sua autobiografia è un percorso fatto di scelte che porta alle estreme conseguenze quegli stessi bivi su cui ognuno di noi incappa nella propria esistenza.
Leggi un estrattoNella mia vita il numero nove me lo sono portato dietro come un’ombra. In Birmania è considerato un numero fortunato: chi lo usa chiede protezione agli esseri superiori.