La scrittura di Vitantonio - attrice, cooperante e attivista per i diritti civili - attinge dalla fatica di un'esistenza provvisoria, dall'ironia che alleggerisce le situazioni drammatiche, da un equilibrio tra fragilità, coraggio, e continui jet-lag. Jessica Chia - La Lettura
Scovare le piccole storie di umanità che si snodano lontano dai grandi giochi della geopolitica sembra, per Vitantonio, l’obiettivo principe, in un nuovo memoir dal ritmo incalzante. Raffaella Oliva - Rolling Stone
Non ci sono idee e teorie geopolitiche, ma persone. Federica Ceccarelli - Culturificio
Un memoir sulla sua esperienza di vita e lavoro in un Paese che attraverso i suoi racconti risulta alla fine un po’ meno alieno. Nessun romanzo, resoconto di viaggio o saggio approfondito era finora riuscito così bene nell’impresa. Junko Terao
Dopo aver vissuto quattro anni in Corea del Nord, Carla Vitantonio sbarca a Yangon, la più popolosa e vivace città del Myanmar. Proprio come il Paese che la ospiterà, sta attraversando una travolgente trasformazione, sballottata tra antichi conflitti e promettenti novità. Il suo incarico è quello di direttrice regionale per un’importante Ong. L’obiettivo è assistere le persone disabili tramite numerosi programmi, tra cui quello di supporto alle vittime delle mine antipersona.
Il primo anno non è affatto semplice, in Myanmar tutto segue una logica impossibile da decifrare e ci vuole tempo per trovare il proprio posto. Poi, grazie a due gatti, una bicicletta su cui sfrecciare tra i pericoli delle strade birmane, una comunità queer tra le più aperte del continente asiatico e le trattative nella giungla con le milizie ribelli, l’autrice inizia a sviluppare un legame sempre più profondo con queste lande remote e con le persone che le abitano, offrendo ai lettori uno sguardo unico – di donna, attrice, attivista, cooperante,– per comprendere un altro pezzo di Asia.
A seguire il successo di Pyongyang blues, Carla Vitantonio regala il suo sguardo unico sul Myanmar (ex Birmania), per raccontarci chi sono quei birmani che hanno invaso le strade del Paese in protesta contro l’ultimo colpo di Stato militare.
Leggi un estratto«Due cose sapevo di certo: la prima, che la Birmania era l’ombelico del mio mondo, ovvero della cooperazione. La seconda, che la Birmania era l’amico più sporco della Corea del Nord. L’amico che probabilmente ordinava armi nucleari e simili prodotti d’intrattenimento. L’amico che aveva chiesto ai nordcoreani assistenza tecnica per costruire la nuova, inespugnabile capitale Naypyidaw. Insomma, un filo diretto correva tra Pyongyang e Naypyidaw, e su quel sottile ma solido filo mi vedevo a camminare trionfalmente io, la sopravvissuta.»