Bangladesh: arte, fotografia e specchi d’acqua nera tra censura cinese ed emancipazione femminile
– di Ilaria Benini – Cronache dall’Asia, 2016
Centinaia di clacson di diversa tonalità mi circondano e ricoprono l’angolo di Dhaka in cui mi trovo. Cori di proteste di carattere politico si alzano nell’aria, avvolti in polvere che sale e scende seguendo il movimento della folla. Il Bangladesh è un paese sovrappopolato, denso di vite che si dimenano in un ambiente faticoso: il clima, lo stato delle infrastrutture che non segue il passo delle pretese di sviluppo economico, le distese di fabbriche che inquinano incessantemente. L’acqua nera.
Sono arrivata con molte domande e parto senza risposte definitive, ma con più elementi ad alimentare le stesse domande, che non cambiano: l’arte contemporanea può avere un impatto positivo sulla libertà d’espressione in contesti inospitali per tale libertà, che sia per ragioni economiche e/o politiche? Quando le forze del mercato e delle istituzioni dell’arte internazionale intervengono in contesti svantaggiati, qual è l’equilibro tra influenza positiva e negativa? Il cambiamento indotto da tali manifestazioni in che direzione va esattamente?
I miei due anni di esperienza in Myanmar mi hanno portata ad articolare in maniera sempre più specifica queste domande, ma le riflessioni non portano a esiti chiari.
La principale ragione della mia visita in Bangladesh è il Dhaka Art Summit, un momento di incontro per centinaia di professionisti dell’arte. Ai cancelli della Bangladesh Shilpakala Academy grandi manifesti annunciano “la più grande piattaforma non commerciale al mondo dedicata all’arte dell’Asia meridionale” e le aspirazioni sono chiare. All’ingresso dell’edificio due metal detector, le borse delle donne occidentali non vengono controllate, ma vengono requisiti i pacchetti di sigarette. Si salgono gli scalini e iniziano le mostre, tante e ardue da organizzare: in Bangladesh si deve pagare il 120% di tasse di importazione su tutte le opere; per completare Rewind, una magnifica retrospettiva storica che ha messo in mostra il lavoro di numerosi artisti attivi prima del 1980, lo stesso gallerista di Arpita Singh ha portato a mano nel suo bagaglio alcune opere perché, date le quotazioni dei lavori, le tasse non erano sostenibili. Nei tre piani dell’edificio erano presentati anche un programma di proiezioni di film, uno di conferenze e uno di performances.
L’evento da due milioni di dollari e 138.000 visitatori (di cui 2500 bambini delle scuole) è un’iniziativa della Samdani Art Foundation, fondata nel 2011 da Nadia Samdani e suo marito Rajeeb, classe 1974, industriale (*nota 1). Il summit “non è una biennale, e non un simposio, né una fiera, ma piuttosto una via di mezzo ed è libero dalle pressioni del mercato dell’arte”, dicono. Entrambi ricoprono numerose cariche in importanti istituzioni come la Tate Gallery di Londra (membri del comitato per le acquisizioni di opere dall’Asia meridionale) e il New Museum di New York. Nelle classifiche annuali del 2015, la coppia era tra i top 200 collezionisti secondo Artnews e tra le 100 personalità più potenti secondo Art Review. La corsa alla notorietà è spericolata e questi risultati sono stati raggiunti in soli cinque anni. Come?
Nadia Samdani è nata e cresciuta in questo pezzo di mondo lontano dai vernissage che determinano i prezzi di mercato e qui ha iniziato a sognare: figlia di un collezionista, cresciuta in una famiglia in cui era tipico regalarsi opere d’arte. Ha iniziato la propria collezione insieme al marito acquisendo pezzi provenienti dalla Bengal School di Abanindranath Tagore e Gaganendranath Tagore e di celebri artisti bengalesi come Shahabuddin Ahmed e Kanak Chanpa Chakma. Lo spettro si è ampliato, prima con artisti dal resto della regione, infine espandendo le acquisizioni a livello mondiale (parliamo di pezzi di Rembrandt, Matisse, Picasso, Paul Klee, Dali, Ettore Spalletti, Cindy Sherman, Marina Abramovic, Ai Wei Wei , Pawel Althamer, Mona Hatoum, Philippe Parreno, Dominique Gonzalez-Foerster, Lynda Benglis, Anish Kapoor, tra i molti altri nomi).
Nadia e Rajeeb appartengono a una generazione particolare, nata dopo la creazione dello stato del Bangladesh dalla guerra con il Pakistan. Sono internazionali e hanno aspirazioni internazionali: il loro investimento pretende che il Bangladesh compaia nella mappa del mondo dell’arte riconosciuto dalle grandi istituzioni dell’Occidente.
Nel giro di cinque anni la Fondazione ha visto il proprio nome impresso sul muro della Biennale di Venezia tra i ringraziamenti. Dieci giorni fa, a febbraio 2016, i due volti ufficiali del summit, Nadia Samdani e Diana Campbell Betancourt – collezionista e direttrice artistica, entrambe sotto i trentacinque anni –, hanno accolto le star del mondo dell’arte Hans Ulrich Obrist (Serpentine Gallery – Londra), Kate Fowle (Garage Museum of Contemporary Art – Mosca, Independent Curators International – New York), Beatriz Ruf (Stedelijk Museum – Amsterdam), per nominarne solo alcuni. Daniel Baumann (Kunsthalle – Zurich) ha curato il Samdani Art Award, un premio che offre tre mesi in residenza presso la Delfina Foundation nel Regno Unito a un artista del Bangladesh.
I grandi nomi invitati al summit hanno preso parte al programma di conferenze, che personalmente ho trovato un’occasione persa: raffinati esperti hanno intrattenuto il pubblico con monologhi, brevi lezioni frontali autoreferenziali di dieci minuti, in inglese. Se il lato didattico può essere fondamentale in un contesto del genere, andrebbe svolto nella lingua del posto, ma non era prevista traduzione. Se ci si auspicava un momento di dibattito e critica allo stato dell’arte nella regione e globalmente, tutte le energie messe in gioco per avere tali nomi in un paese con tale reputazione sarebbero potute essere messe a frutto in altro modo. I mondi dell’arte periferici rispetto all’Occidente sono stati per molti anni inclusi in mostre regionali, dove la matrice comune è la provenienza geografica, non necessariamente il discorso artistico. Lo stesso summit si dichiara una mostra di arte dell’Asia meridionale. Ma la geografia del mondo è mutevole, cambia significato a seconda della prospettiva con cui la si osserva e, assodato un discorso critico post-coloniale, sta emergendo, seppur con pochi mezzi e in lotta con un mondo in cui il ritmo è determinato dall’Occidente, l’esigenza degli artisti “periferici” di essere riconosciuti per la loro pratica. Un intervento tagliente di Geeta Kapur, grande critica d’arte indiana, è stato l’unico vero momento di rimessa in discussione di ciò che stava avvenendo entro i cancelli della Shilpakala Academy (* nota 2).
La predominanza femminile all’interno della Samdani Art Foundation mi ha incuriosita e ho chiesto alla direttrice artistica, Diana Campbell Betancour, di fornirmi contesto riguardo la complessa posizione della donna nella società e nel mondo dell’arte:
“A partire dall’indipendenza del Paese, la situazione delle donne del Bangladesh è migliorata e continua a farlo. Questo è evidente anche nel mondo dell’arte del Bangladesh, con l’eccezione della scena della fotografia. Le donne occupano posizioni di leadership in organizzazioni artistiche (dalla Samdani Art Foundation, alle Bengal Galleries, a Britto Arts trust) e donne artiste stanno ricevendo maggiori opportunità e attenzione internazionale, dalla giovane generazione con Ayesha Sultana e Marzia Farhana, ad artiste più affermate come Tayeba Begum Lipi, alla generazione storica con ad esempio Dilara Begum Jolly. Tuttavia, questo riconoscimento non dipende dalla loro identità di donne, ma dalla qualità del loro lavoro e in Bangladesh posso dire che c’è posto per l’eccellenza che trascenda le aspettative di genere. Il Bangladesh permette di identificare un terzo sesso ufficialmente, anche sui passaporti. E non si può dimenticare che il paese è gestito da un primo ministro di sesso femminile, con un leader femminile al partito di opposizione”.
Sono passati quattro giorni, ho partecipato a un evento eroico e controverso, con contraddizioni connaturate al contesto e all’arte contemporanea. L’opera “Last Words” di Ritu Sarin and Tenzing Sonam ci saluta così:
Le cinque fotografie e didascalie coperte riproducevano cinque lettere, gli ultimi messaggi di tibetani che si sono auto-immolati per la libertà del proprio paese. Dopo una visita dell’Ambasciatore cinese alla mostra l’opera è stata censurata. In questo post di facebook si può vedere l’opera come era esposta e i commenti forniscono contesto al caso: gli interessi economici cinesi sono troppo forti per la libertà d’espressione.
1 > Conosci Nadia e Rajeeb Samdani e la loro collezione:
2 > ascolta una conversazione tra la direttrice artistica Diana Campbell Betancourt, Beatriz Ruf e Daniel Baumann registrata durante il summit: