23 marzo 2018

La vita altrove, storie dall’Asia: Nicoletta Rinaudo / Lorenzo Chiarofonte

-di Ilaria Benini-

La vita altrove è una rubrica in cui andiamo alla scoperta delle storie di giovani italiani che hanno scelto di vivere in Asia – per un periodo o in pianta stabile –, alla ricerca di opportunità e felicità.

Abbiamo creato questa rubrica per costruire una rete ispirata dal nostro progetto editoriale Asia, che propone storie e saggi per avvicinarsi a regioni del mondo che stanno vivendo una trasformazione accelerata e travolgente.
Nuove aperture e maggiore libertà di espressione innescano opportunità di condivisione e scoperta: con le nostre pubblicazioni e iniziative intercettiamo l’energia in circolo nel mondo, attirando in Italia l’aria dinamica che si respira in paesi poco conosciuti, lasciandoci ispirare dalle strategie umane individuali e collettive che danno vita ai contesti asiatici.

Pensiamo che ogni vita possa essere fonte d’ispirazione creativa, una delle innumerevoli risposte alla curiosità per lo sconosciuto.
Grazie alla disponibilità di chi parteciperà alla nostra rubrica vogliamo offrire un modo vivo di esplorare l’Asia, una parte del nostro mondo.
C’è molto da scoprire, oltre le bacchette, le spiagge tropicali e le statuette di Buddha.

L’immagine di copertina è un’illustrazione originale di Marta Giunipero, studentessa al secondo anno di IED a Torino.

Nome
Nicoletta Rinaudo

Età
38

Dove vivi?
A Bangkok, in Tailandia

Come ci sei arrivata?
Nell’estate di cinque anni fa, ho incontrato a Torino una cara amica dell’università, che viveva da anni in Cina, durante una delle sue visite a genitori e amici. Non la sentivo da sei mesi e nel frattempo si era trasferita a Bangkok.
Abbiamo chiacchierato tanto, come di consueto. Mi ha fatto molte domande riguardo al mio lavoro come insegnante d’inglese e d’italiano agli stranieri a Torino perché era intenzionata a prendersi un anno sabbatico da trascorrere a Torino per motivi personali.
Io le ho raccontato, a profusione, tutti i problemi del lavoro precario, le continue supplenze a singhiozzo, gli enti che pretendono che tu sia sempre disponibile ma che pagano a sei mesi dalla fine del progetto… Per farla breve, ero molto scontenta della mia situazione lavorativa, nonostante mi piacesse il mio lavoro da insegnante.
Allo stesso tempo, Roberto, il mio compagno (ora marito) che è video maker freelance, era sepolto dalle tasse e divorato dallo stress.
Dall’altro lato, la mia amica mi raccontava della sua vita a Bangkok, del lavoro in università, che sembravano molto interessanti.
Allora lei mi ha proposto di “scambiarci i lavori”. Le ho presentato le persone con cui lavoravo per aiutarla ad avere un punto di partenza dopo molti anni di assenza dall’Italia. Lei e suo marito si sono presi un anno sabbatico e sono venuti a Torino.
Ho fatto domanda nella loro università, un colloquio su Skype e sono stata assunta. In due mesi, eravamo a Bangkok.
È successo tutto molto velocemente ma non è stato un colpo di testa, più che altro una “pazzia ragionata”.
Quattro o cinque anni prima, durante uno dei nostri viaggi in Asia, io e Roberto eravamo venuti a Bangkok e ci era piaciuta tantissimo. Ho anche fatto un colloquio per lavorare in un’altra università di Bangkok allora, ma hanno preferito un’altra persona.
Quindi, quando ho incontrato la mia amica, ho pensato che la seconda occasione non si potesse lasciare andare.
Mio marito mi ha accontentato pensando di prendersi anche lui un anno di pausa, per lavorare su dei progetti personali.
Dopo un anno, la mia amica è tornata a Bangkok e noi ci siamo rimasti.

Cosa ti fa restare?
La risposta facile: perché siamo felici qua.
La risposta difficile: perché il tempo vola e ci sono molte cose interessanti da fare, mille posti da esplorare che sono vicini e accessibili sia per tempo che per denaro. Per il senso di novità e scoperta continua, ma allo stesso tempo per la familiarità che sento ormai per questo mondo. Per lo stile di vita più rilassato, per il fermento che c’è nell’aria e la sensazione di vivere “nel centro del mondo”, perché questo è il secolo dell’Asia e se ci vivi, te ne accorgi.

Cos’è per te l’Asia?
Fin da ragazzina ho da sempre inspiegabilmente avuto un’ossessione di scoperta nei confronti dell’Asia. Ho letto di tutto sull’Asia, dal Il Milione di Marco Polo a tutto quello che ha scritto Terzani. Sono finita con il laurearmi in lingua e letteratura cinese, e continuo a studiare cinese anche qua. Adoro le lingue asiatiche. Ho vissuto in Cina per un po’, ma in Cina è molto duro lavorare per qualcuno che non parla cinese, per cui non me la sono sentita di chiedere a mio marito il sacrificio di seguirmi in un posto dove non avrebbe potuto essere indipendente. Bangkok sembrava un buon compromesso.
Dopo qualche mese, ha cominciato a lavorare anche lui un po’ per scherzo, ma poi si è trovato molto bene.
Anche a me piace molto il mio lavoro, quindi siamo rimasti. Quanto rimarremo ancora non lo so. Sto cogliendo tutte le occasioni possibili per esplorare tutto quello che posso in Asia, ma me ne rimane ancora tanto!
Bangkok per me ora è casa. Sono una persona molto fortunata perché ho due luoghi che posso chiamare casa.
Sono felice quando vado a casa in Italia e sono altrettanto felice quando torno a casa a Bangkok.
Io vengo da una piccola cittadina in provincia di Cuneo, la mia citazione preferita l’ho scoperta quando ero ragazzina leggendo La luna e i falò: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Penso di non dover aggiungere altro.

Ci racconti un fatto quotidiano simbolico della tua vita lì?
Ci sono tantissime situazioni quotidiane assurde che, quando capitano, ci guardiamo negli occhi e ci diciamo a vicenda: «Se lo raccontassimo ai nostri amici a Torino, nessuno ci crederebbe».
Vi faccio un esempio. In Tailandia ci sono tanti cani in giro, randagi o lasciati gironzolare per il quartiere dai padroni.
Bangkok non fa eccezione. A me piacciono tantissimo i cani e ho fatto amicizia con molti cani del mio quartiere.
Ce n’è uno in particolare che ama andare in moto. Quando mi vede in motorino, mi corre incontro e salta su per farsi dare un passaggio fino a casa o anche solo per fare un giretto. Carino, vero? La maggior parte delle volte lo è, ma non tanto alle sette del mattino quando sono di fretta per andare a lavorare. Poi, non v’immaginate un cagnetto tascabile. È un golden retriever di almeno quaranta chili che vuole essere portato in moto!

Di cosa ti occupi?
Sono una docente universitaria.
Questo è il mio blog, su Instagram invece sono @lanicolezza.

Nome
Lorenzo Chiarofonte

Età
30

Dove vivi?
Yangon/Mandalay (Myanmar)

Come ci sei arrivato?
Sono stato guidato verso il Myanmar dal formidabile suono dello hsaing waing, l’ensemble tradizionale birmano di gong e tamburi. Ancora alla fine del 2012, mentre raccoglievo registrazioni di musiche non occidentali, sono incappato in un disco di musica colta birmana (Birmanie: Musique d’art, dell’etichetta Ocora): le melodie e i ritmi dell’ensemble non assomigliavano a nulla che avessi già ascoltato. La curiosità di sperimentare il suono dell’ensemble dal vivo, e la voglia di comprendere queste musiche, mi hanno portato a Yangon per la prima volta.

Cosa ti fa restare?
Fin dall’inizio, è bastato pochissimo per rendermi conto che le musiche alle quali ero particolarmente interessato, quelle che accompagnano le cerimonie di possessione, erano legate non solo a pratiche rituali estremamente complesse che affondano le radici nella cultura birmana, ma anche a musiche appartenenti ad altri contesti performativi – le danze di corte, il teatro delle marionette, il teatro classico. Una volta che si inizia a scavare, fermarsi è difficile.

Cos’è per te il Myanmar (ex Birmania)?
Per me la Birmania si identifica principalmente con il suono della sua musica.
Negli anni mi sono accostato sempre di più a essa, fino ad arrivare a esplorarla in prima persona, prendendo lezioni di musica con maestri e musicisti locali, con i quali si è stretto un forte legame di amicizia.

Ci racconti un fatto quotidiano simbolico della tua vita lì?
Prendere in mano uno degli strumenti dell’ensemble durante una cerimonia, circondato da amici musicisti che conosco da anni, rappresenta forse uno dei momenti più intensi della mia esperienza: da semplice osservatore divento parte attiva dell’ensemble, e si fa musica insieme – e questa condivisione rappresenta qualcosa che ti lega moltissimo con le persone con cui si suona.
Bisogna ascoltare gli altri con attenzione, e ci si scambiano sguardi e gesti di intesa, spesso senza la possibilità di comunicare verbalmente, dato che il suono dell’ensemble sovrasta qualsiasi cosa. È un’esperienza di totale immersione in quel mondo sonoro che spesso si trasforma in complicità con i musicisti.

Di cosa ti occupi?
Sono antropologo ed etnomusicologo, studente PhD alla SOAS University of London.
Questo è ll mio sito.

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