Quando a Rangoon si inventò il balsamo di tigre
-di Ilaria Benini-
Un’aura di fascino e mistero non ha mai lasciato la Birmania e la sua ex capitale Rangoon (oggi rinominata Yangon), né negli anni in cui erano grandi autori a scrivere di lei (Rudyard Kipling, Pablo Neruda, Somerset Maugham, George Orwell), né negli anni in cui raccontare questo angolo di mondo disteso verso il Golfo del Bengala divenne sempre più difficile, per la chiusura del paese entro i propri confini, controllati da una dittatura che fece dell’autarchia una delle principali armi di controllo del dissenso interno.
Oggi la «terra delle mille pagode» si sta scrollando polvere e macerie, raddrizzando la schiena, allungando lo sguardo avanti e indietro. C’è molto di cui essere nostalgici e orgogliosi guardando al passato di Rangoon, un sentimento da sfruttare nella transizione democratica in corso perché l’ispirazione per il cambiamento arrivi anche dalla propria storia e non soltanto dall’aspirazione emulativa nei confronti di Singapore e Corea.
Certo si tratta di un passato ambivalente, perché la Rangoon cosmopolita era diventata tale dopo esser stata conquistata dagli inglesi nel 1852. La città aveva un altro nome ancora allora: Dagon, la sua esistenza legata a due luoghi molto preziosi alla tradizione buddhista, le pagode Shwedagon e Sule.
Un viaggiatore italiano alla fine del sedicesimo secolo la paragonò a Venezia, descrivendo il flusso di pellegrini che si recavano in questo luogo sacro «più grandioso» di San Marco.
Divenne un centro urbano moderno per volontà britannica, che lo rese l’epicentro di questa sua nuova provincia dell’India britannica, annessa come fosse il Bengala o il Punjab. L’afflusso di immigrati a Rangoon fu così imponente da trasformarla in una città a maggioranza indiana, con i birmani diventati una minoranza.
«Vi si mescolavano persone da ogni parte del subcontinente, da insegnanti bengalesi a banchieri del Gujarat, da poliziotti sikh a commercianti tamil. C’erano anche cinesi e comunità minori di europei, statunitensi e latino-americani.» scrive Thant Myint-U nel suo Myanmar. Dove la Cina incontra l’India (Add editore, 2015).
Proprio osservando questo contesto emerse il concetto di «società plurale», definita dallo storico del Sudest asiatico J.S. Furnivall come un mix di genti (nativi, indiani, europei, cinesi), che si incontrano nel mercato della compravendita, ma non si combinano, mantenendo la propria religione, cultura e lingua. Una società plurale con diverse comunità che vivono fianco a fianco all’interno della stessa unità politica. Imprenditori di Glasgow e indiani musulmani gestivano le grandi società che commerciavano in riso, legname, petrolio, trasporti. La Birmania era il maggior esportatore di riso nel mondo e molto di questo commercio veniva gestito direttamente da Rangoon, il cui porto era un hub fondamentale del tempo.
Anche le rotte aeree usavano questa città, e non altre capitali del Sudest asiatico, come base di scalo per i voli da Londra a Sydney della compagnia britannica Imperial Airways, ad esempio, o della rotta da Amsterdam per Jakarta di KLM.
Molti imprenditori fecero fortuna a Rangoon, come i fratelli Aw, che inventarono il famoso balsamo di tigre disponibile ovunque oggi in Asia, che vi nacquero e da lì espansero poi le loro attività a Singapore e Hong Kong. I figli di questa élite di commercianti iniziarono a frequentare scuole inglesi e l’intero sistema educativo accrebbe la sua qualità.
Negli anni ’50 l’Università di Rangoon era ancora uno dei migliori atenei in Asia. Ne fu rettore fino al 1962, anno del colpo di stato, Hla Myint, economista di fama mondiale che diventò in seguito un professore di spicco alla London School of Economics.
L’eterogeneità di culture era dimostrata anche dalla stampa birmana, che fino al colpo di Stato del 1962 era considerata tra le più libere in Asia, con più di trenta quotidiani indipendenti, tra cui sei in cinese, tre in inglese e numerosi in diverse lingue indiane. Pezzo dopo pezzo, quella Rangoon si sgretolò: prima con il bombardamento aereo avvenuto durante la Seconda guerra mondiale a causa dell’invasione giapponese (ritratto ne Il palazzo degli specchi di Amitav Ghosh), poi con la guerra civile e l’assedio della città in seguito all’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948, infine con le scelte isolazioniste della dittatura di Ne Win.
I movimenti in entrata e uscita dal Paese vennero drasticamente limitati, la censura interruppe gli scambi culturali e portò alla chiusura di giornali e case editrici.
I tempi della ricchezza e del passato crogiolo di culture si intuiscono nelle facciate derelitte dei vecchi palazzi, ma potrebbero presto essere totalmente dimenticati se il piano urbanistico della città non si impegnerà a tutelare quest’eredità, sostituendo i segni del passato con moderni edifici che rincorrono il sogno del benessere.
L’articolo è tratto dal sesto numero dello speciale de il manifesto “In Asia“, dal titolo È stato un tempo il mondo (24 novembre 2016).
Ilaria Benini è la curatrice della collana Asia di add editore: fondatrice di Flux Kit | Connecting Cultures, ha organizzato in Myanmar il festival internazionale di cultura e arti Contemporary Dialogues Yangon. Fa parte del comitato consultivo per il Sudest asiatico del Ministero della Cultura di Taiwan.
Nell’immagine di copertina: la State Fine Arts School di Yangon (foto di Kaung Htet)