«Scindere il pianto dalla tristezza»: a ognun* le sue feste in lacrime.
-a cura di Enea Brigatti-
La sensazione è nota a tutti: hai letto qualcosa, stai leggendo qualcosa, hai quasi finito di leggere qualcosa, e il pensiero non è più lì ma già altrove.
Dove va, dipende. Torna indietro a un fatto autobiografico, corre avanti verso cose apparentemente lontane, “Quando scade la Tari?”, “Ricordati di comprare le cornici la prossima volta che vai all’Ikea”, “Domani è già mercoledì, come farò a fare tutto entro venerdì”, si ferma in lande indefinite in cui tutto
si mischia: la casistica è ampia.
In quei momenti lo sguardo si sposta fuori dal libro, diventa sfuocato: si decide se fare un’orecchia alla pagina e abbandonarsi alla divagazione oppure nel giro di poco tempo si riprende.
Quando ho letto Feste in lacrime, il racconto che dà il titolo alla versione italiana della raccolta di storia brevi di Prabda Yoon, stranamente non mi sono distratto: non ne ho avuto il tempo materiale, o forse ero solo molto curioso di leggere queste storie che mi sembravano magiche, reali e misteriose.
La trama è semplice: un gruppo di ragazzi si ritrova e a dire fesserie, ubriacarsi e mangiare peperoncini fino a piangere: «Con il tempo scoprimmo che lo scopo delle feste in lacrime non era soltanto di intrattenerci; al contrario, June le sfruttava per scindere il pianto dalla tristezza. Voleva imparare a piangere per divertimento», si dice a un certo punto.
Neanche qui mi sono fermato, stranamente.
La sera stessa però, mentre mi dedicavo al lavaggio delle stoviglie il pensiero è tornato in quelle zone, anche se in maniera tangenziale: in quante canzoni si associano le lacrime alle feste, o alle occasioni di divertimento collettivo?
La tristezza massima in un’occasione che dovrebbe essere per eccellenza gioiosa?
Tantissime, si pensi anche solo all’abisso dello struggimento da cameretta di
How soon is now? degli Smiths (“There’s a club if you’d like to go / […] / So you go and you stand on your own / And you leave on your own / And you go home and you cry /And you want to die”) o alla dichiarazione bellicosa di It’s my party (“and I’ll cry if I want to / cry if I want to / cry if I want to”) dell’inconsolabile Lesley Gore.
C’è chi al concetto di festa in ambiente domestico che di festoso ha poco o nulla, ha dedicato un intero, divino, disco, come Andy Shauf.
The party prende una festa nordamericana, di quelle che ognuno di noi ha bene in testa e che abbiamo appreso alla perfezione da film e telefilm: la moquette, lo stereo, i bicchieri di plastica, la luce che arriva dalle abat-jour, e che abbiamo vissuto spostandoci sulla linea della latitudine nei nostri tinelli, nelle nostre taverne, sparendo nelle tappezzerie ancora optical o dietro ai ficus benjamina, e la racconta attraverso gli avventori.
Martha, Alexander, Jeremy: lo sguardo di Andy sui personaggi è tenero e affettuoso, la sua voce esile tocca tutto lo spettro della malinconia possibile, chitarre e batteria si muovono morbide per accompagnare storie di imbarazzi minuti ma infiniti. Vicende minuscole ma paradigmatiche: i corteggiamenti, le solitudini, i rapporti che si incrinano, le aspettative, le ansie e i rifiuti.
Gli stessi che si ripetono di anno in anno, generazione dopo generazione, di epoca in epoca: per questo qualche mese fa quando Prabda è venuto per la prima volta in Italia a presentare il suo libro, per pubblicizzare il tour abbiamo chiesto – insieme con Ilaria Benini, l’editor della collana Asia – a persone che stimiamo per tempra, scelta delle parole, acume, alle quali ci sentiamo vicini per sensibilità, di raccontarci nella forma prediletta la propria festa in lacrime per eccellenza.
D’altronde ognuno di noi ne ha una dentro di sé: almeno una.
Violetta Bellocchio, «scrittrice di fiction, scrittrice di nonfiction, ha ben presente la distanza tra i due generi», è in libreria (e in neverending-tour) con La festa nera, uscito per Chiarelettere nel 2018, un grosso successo di critica e pubblico. La trovate spesso anche su Esquire e minima & moralia: il consiglio è di non farsela scappare.
«Un’estate si sono unite in matrimonio tutte le persone che conoscevo. Donne ballerine e uomini decenti si sono svegliati legalitari e implacabili. Avevano la piramide di cupcake al posto della torta e il dj set con gli invitati che sparavano dita in aria. Alcuni pur di sposarsi in chiesa si sono accollati il corso per fidanzati e poi il prete li ha accusati di non conoscere il Vangelo durante la messa. Altri sono caduti ubriachi per le scale della sala rinfreschi e sono atterrati belli dritti sull’unica faccia che non potevano colpire. All’ultimo giro la sposa è saltata sul muretto dell’agriturismo quattro stelle e si è messa a cantare Rihanna, e non le staccavo gli occhi di dosso, convinta che sarebbe caduta di schiena e si sarebbe ammazzata davanti a me. Invece lei è viva e ha un matrimonio felice. L’unico. Io non sono sposata perché all I wanna do is bang bang bang bang and take your money.»
Valentina Ziliani di mestizie – in musica soprattutto – se ne intende: citofonare Dance Like Shaquille O’Neal per trovare i suoi meravigliosi pezzi e i suoi consigli preziosi.
«“La sai Blackbird?” – mi chiese con uno sguardo da terzo bicchiere. Alla festa in baita per il diciottesimo di mia cugina avevo portato il vino, la chitarra e il mio ragazzo di allora. Il vino fu il primo a tradirmi, facendomi strimpellare come un giullare stolto. Le dita pure mi tradirono, scorrevano senza grazia sulle corde. Anche il mio ragazzo fu tradito. Ops.
G. aveva solo 19 anni e la bellezza sfacciata di Catherine in Jules et Jim. Era enigmatica e sfuggente. Ma ancor più era, e sapeva benissimo di esserlo, un oscuro oggetto del desiderio. Il mio.
Quella notte rimanemmo a dormire tutti in baita.
La prima cosa che feci tornando a casa fu imparare a suonare Blackbird.»
Elisa Cuter, editor a Il Tascabile, critica cinematografica ormai di lungo corso e collaboratrice di rassegne come il Lovers Film Festival – Torino Lgbtqi Visions e il Carbonia Film Festival, ha scelto una storia di coincidenze, sogni e progetti falliti.
«”Stanotte ho sognato una frase”. Sogna spesso frasi. Col tempo avrei scoperto che tanti maschi lo fanno. Io sogno vicende, più o meno articolate, loro sognano frasi, formule. La frase di quella notte recita “è vero che la vita può”. Entrambi al primo anno di filosofia, ci sembra ricca di spunti. La googliamo e il primo risultato sotto “immagini” è la statua che sta proprio davanti alla nostra facoltà. Inizia la caccia al tesoro, andiamo lì di corsa e dentro alla bocca della statua troviamo il flyer di un festival di cortometraggi a Nizza. Non è lontano, in treno ci si arriva in una notte, ma quella notte la passiamo a progettare il viaggio e a scrivere “è vero che la vita può” sotto al piano del tavolo del suo monolocale. Poi a Nizza non ci andiamo. E lui, non saprò mai il perché, non si innamora di me.»
Di Giulia Cavaliere si può dire che sta riuscendo nell’impresa di unire l’Italia da nord a sud sotto la medesima bandiera: quella della canzone d’amore. Con il suo Romantic Italia, uscito da pochissimo per minimum fax, ha messo insieme come in un jukebox più di settanta pezzi per far capire di cosa parliamo quando cantiamo d’amore, da Sergio Endrigo a Umberto Tozzi.
Per noi con il suo inimitabile stile agrodolce ha unito spleen, vacanze di Natale e Fantaghirò.
«Succede sempre che si avvicini qualcuno, quando metti musica a una festa, qualcuno che nella maggior parte dei casi mentre stai passando new wave ti chiede la pizzica, o un altro che invece non vuole parlare di niente, solo stare intorno alla sorgente del suono, farti ombra, forse esserci.
Quella sera eravamo piccolissimi e Carlo mi fece ombra fino a quando mio padre non venne a prendermi per riportarmi a casa. Mi piaceva. Mentre scappavo dalla festa e aprivo la porta per andare via mi chiese il numero di telefono e io, con timidezza, feci solo finta di non aver sentito. Il giorno dopo era il primo gennaio e ripensandolo sperimentai per la prima volta la sbornia dell’innamoramento guardando distratta i duelli a colori di Alessandra Martinez per un pomeriggio intero, triste al pensiero che non ci saremmo più visti fino al ritorno a scuola. Verso le 18 si mise a nevicare e poco dopo il telefono di casa squillò. “Giulia, è Carlo!” gridò mia madre dal centro del corridoio. Il battito cardiaco accelerava sotto i miei passi lenti verso la cornetta SIP.
“Ciao, ti ho chiamata per sapere il tuo numero di telefono” e in lontananza, dal televisore, l’epica di Amedeo Minghi suonava il finale di Fantaghirò.»
Prima di chiudere il pezzo mi è arrivata una mail da Ilaria: «Ho scritto anch’io la mia, di festa in lacrime. Cosa ne dici?». E così il cerchio si chiude, tondo tondo.
«Era buio pesto. La città affogava nella notte. Al ritorno da quasi due mesi in Europa, l’illuminazione urbana a bassissimo voltaggio di Yangon mi aveva sorpresa e riportata a quell’universo dal ritmo disallineato rispetto al resto del mondo. Lampioni dalla luce fioca, qualche candela accesa sui carretti degli ambulanti, interi quartieri nel blackout. Il taxi sfrecciava nella città senza traffico della sera tardi, con continue oscillazioni in su e in giù, di qua e di là, con gli ammortizzatori scarichi e nessuna striscia a terra a delimitare i confini delle corsie e l’andatura del guidatore. Non avevo la connessione dati nel telefono e non ricordo come mi fossi rimessa in contatto con i miei amici. Probabilmente una telefonata, e l’inglese con quel suadente accento birmano mi aveva tirato un altro paio di schiaffi per riportarmi a terra, l’indirizzo dove mi aspettavano ripetuto più e più volte perché fissassi in testa il suono senza nessun appiglio alla scrittura per aiutare la mia memoria. Ero impaziente di riconnettermi al mio gruppo, artisti, giornalisti, musicisti, teste matte, cuori resistenti. Catapultata da tanti vodka tonic nel bar di fianco al cinema Maffei di Torino a un volo intercontinentale con scalo nella penisola arabica, al quartiere di Yangon in cui si erano trasferiti Mrat e Grace. Ero salita su per i sette piani di scale del building con i miei venti chili di zaini e libri, fatica e sudore tropicale ennesimo aggancio alla realtà, e finalmente dietro la porta una festa di sorrisi ad accogliermi. “Quanto mi siete mancati”. (Quanto mi mancano.)
Accasciata a terra, mi ero servita un whiskey di pessima qualità e soda con un po’ di ghiaccio, e tempo due minuti avevo le lacrime agli occhi dal bruciore. Di scatto avevo fatto scivolare le mani lungo le cosce e ci avevo trovato un mucchio di formiche giganti rosa e vivissime che si rotolavano sulla mia pelle con i denti affondati nella mia carne. I mille e uno modi per forzare il pianto a una festa in Asia.»
I poster che vedete nelle foto riproducono le illustrazioni di Alberto Fiocco che si trovano dentro Feste in lacrime: sono stati stampate in risograph allo Spazio Florida di Milano, e sono numerati e firmati a mano da Fiocco stesso. Ne esistono solo dieci per ogni soggetto: se vi piacciono le abbiamo in questi giorni al nostro stand a Più libri più liberi, altrimenti a brevissimo saranno disponibili anche sul nostro e-commerce.