Tra le righe della democrazia cinese post-rave
-di Ilaria Benini-
Ilaria, editor della collana Asia di add editore, sta girando il continente asiatico alla ricerca di nuovi talenti letterari da pubblicare.
La prima cartolina che ci manda arriva da Taiwan.
Nella foto l’ufficio temporaneo dal quale ha scritto questo articolo.
Ho in mente Shu Qi carica di vita che si gira a guardarmi mentre andiamo da qualche parte a divertirci, il tunnel, la camminata, la sigaretta, la musica, tutto dice che stiamo andando a divertirci.
Poi la storia si rivelerà essere molto più complicata e dolorosa, ma è con l’ebbrezza di quei primi secondi di Millennium Mambo che nutro la mia attesa per il primo viaggio a Taipei, non molto tempo fa, a febbraio 2015 per la Taipei International Book Exhibition.
Ed è un angolo, il korner, il posto che più stimola la mia fantasia, un piccolo buco in cui si suona techno e che mi immagino racchiudere tutta la poesia che ho ammirato nei film taiwanesi.
La narrazione della storia e del cambiamento, dipinta su fotogrammi ammalianti per le forme e i colori che proiettavano da un mondo diverso e uguale, la Cina che cambiava e rimaneva tradizionale, su un’isola.
Su un’isola colonizzata a più riprese.
Un’isola-nazione attraversata dal Tropico del cancro, con un clima che varia da tropicale a subtropicale, spesso spazzata da tifoni, la cui autonomia politica non è riconosciuta da nessuno degli Stati del mondo che contano.
Perché? Perché la Cina la reclama come una sua provincia.
Ma i taiwanesi ormai si considerano taiwanesi e alle ultime elezioni hanno scelto un partito che non ha nessuna intenzione di tornare alla Repubblica popolare cinese, tutto il contrario.
La bella isola, battezzata Formosa dai suoi primi colonizzatori portoghesi, ha una popolazione aborigena che oggi pesa il 2.3% e una popolazione cinese han che forma la maggioranza, che ha iniziato ad arrivare dal XIII secolo e non ha mai smesso, con un picco al termine della guerra civile cinese, quando i soldati e gli aderenti al Kuomintang, le forze nazionaliste, dovettero ritirarsi all’avvento del comunismo in Cina.
I giapponesi preferivano mettere alla prova i propri professionisti che avevano studiato in Occidente a Taiwan invece che in Giappone, così hanno lasciato un’eredità architettonica notevole, da grossi teatri a piccole case da tè che ancora oggi conservano sperimentali porte scorrevoli decorate con intarsi liberty.
Il paese ha fatto capolino nelle nostre esistenze con l’arrivo dei prodotti made in Taiwan negli anni Ottanta e la comparsa nei sussidiari di un paragrafo che raccontava l’incredibile ascesa delle tigri asiatiche, con la costruzione del grattacielo più alto del mondo nel 2004, la Taipei 101 Tower, e più recentemente con un’altra news dal tono sensazionale: a Taiwan si vendono un sacco di libri.
24-hour arty people: leggere tutta la notte vince sui rave a Taipei, con questo titolo il Guardian mi avvisa che i tempi sono cambiati.
Chiedo speranzosa dove posso ritrovare le atmosfere di Millennium Mambo a Esther Lu, la direttrice del Taipei Contemporary Art Center.
Ma è un film del 2001 e parla di quel tempo, che è stato soltanto un «momentum» e si è esaurito, mi spiega: non c’è più quell’energia, si è persa.
Sono andata a cercare Esther perché alla Biennale di Venezia del 2013 aveva curato This is not a Taiwan Pavillion, un padiglione provocatorio con cui ho scoperto la portata della crisi di identità di Taiwan.
Ma negli anni Novanta c’era un’altra spinta, un’esplosione di ricerca, rottura delle regole, liberazione dalla stretta che aveva tenuto bloccata la gioventù taiwanese negli anni della dittatura di Chiang-kai Shek.
Noise, performance, grida. Lin Chiwei mi ha passato un suo documentario che racconta quel periodo, ma anche lui conferma che è tutto finito.
Il discorso adesso sembra essere più delicato e sofisticato, ma non relegato a piccole nicchie di rottura, adesso c’è una società civile attiva, eterogenea, che dà vita quotidianamente a una democrazia… cinese.
Taiwan può sembrare un paese poco rilevante da una prospettiva europea.
La sua identità indefinita sullo scenario internazionale e la sua dimensione ridotta (23 milioni di abitanti, ventiduesimo nella classifica che ordina i Paesi del mondo secondo il loro PIL) non aiutano l’isola a ricevere l’attenzione che, invece, merita. In particolare come modello regionale,
Taiwan ha delle caratteristiche uniche, ma la sua stessa incertezza e insicurezza le impediscono di assumere un ruolo di guida.
Gli stessi funzionari del Ministero incaricati di sorprenderci con ciò che il loro paese ha da offrire erano lusingati dai miei complimenti, quasi avessero bisogno di conferme, mentre è così evidente la qualità e il valore dei libri che producono, della rete di organizzazioni artistiche no-profit, della cultura del tè tradizionale e contemporanea, del design e della cultura del cibo.
Forse della cultura del cibo sono consapevoli, è conturbante quanto da noi e nessuno credo vi si possa sottrarre, come da noi.
La creatività e la bellezza con cui sono disegnate le copertine, la scelta delle carte e sei colori, la varietà di trattamenti speciali che le loro tipografie sono in grado di fare a prezzi abbordabili è straordinaria.
A Taipei ce ne sono una quindicina e tutti sono pieni di persone accasciate negli angoli o sedute su gradino che leggono.
Leggono veramente, si prendono il tempo di farlo lì, in pubblico, da soli o con la famiglia.
E poi mi auguro che comprino anche.
Essere librofili è uno status symbol e una delle librerie rimane aperta 24 ore su 24, accogliendo la notte gruppi di adolescenti e meno giovani che ormai al clubbing preferiscono le parole.
Immagine di copertina: frame tratto da Millennium Mambo di Hou-Hsiao-Hsien (Taiwan, 2001).