16 marzo 2025

Cittadini-soldati contro Big Tech: l’intervista ad Asma Mhalla

L’intervista ad Asma Mhalla a cura di Paolo Giordano su La Lettura del Corriere della Sera.

Tecnopolitica è il libro sul tempo accelerato che stiamo vivendo. Sulla relazione perversa fra tecnologie digitali e Stati sempre più autoritari, fra libera espressione e condizionamento delle menti. Asma Mhalla lo ha pensato e scritto molti mesi prima della rielezione di Donald Trump, prima della discesa in politica di Elon Musk. Ma il suo saggio, letto adesso, è come un manuale di sopravvivenza cognitiva.

La sera prima che incontrassi Mhalla a Parigi, Emmanuel Macron ha parlato alla nazione. Ha usato toni da guerra imminente: la minaccia russa, la necessità di un riarmo rapido e massiccio, l’ombrello nucleare francese. La guerra è anche dentro Tecnopolitica . Nel sottotitolo, Come la tecnologia ci rende soldati , la parola «soldati» non è da intendersi in senso metaforico. Asma Mhalla sa che siamo in guerra, e da molto più tempo di quanto immaginiamo. Ma la guerra di cui parla non coincide esattamente con quella di Macron, con la sua «ossessione russa». È una guerra più subdola ed elusiva eppure totalizzante.
Non c’è nulla di nuovo in quello che sta succedendo. Nulla di nuovo nel discorso di Macron. Nulla di nuovo nelle azioni di Trump e Musk. Era già tutto qui, disponibile per chiunque. Ma i politici europei sono stati a lungo ciechi. E codardi. E incapaci. Il paradosso di Trump è di essere un grande mentitore ma, con le sue menzogne, di dire anche delle verità. Ci sta costringendo a cambiare prospettiva. Forse capiremo una volta per tutte che in Europa siamo soli, che la Nato e la protezione degli Stati Uniti erano una narrazione fasulla. Che siamo, invece, completamente dipendenti dalla tecnologia americana, e in parte da quella cinese. Lo shock di Trump non viene dalla novità che porta, ma dal trovarsi per la prima volta di fronte alla realtà. Come gli uomini di Platone fuori dalla caverna.

Asma Mhalla si è trasferita da Tunisi a Parigi a diciotto anni. Con mezzi economici minimi. Ora, a quaranta, è docente a Sciences Po. Le chiedo se crescere lontano da qui le abbia dato uno sguardo laterale sull’Europa, e in quale senso.
Nel senso che io non sono europea. Non c’ero quando l’Europa veniva pensata in un certo modo, ero a Tunisi. La mia storia è quella di un Paese colonizzato. I valori occidentali, che dovevano renderci umani, come se noi non lo fossimo, avevano una carica molto violenta visti da lì.

La fatica di essere araba in questo momento storico è qualcosa che Mhalla non nasconde, anzi: al tavolino dello Hibou indossa un berretto con la scritta «WHAT A TIME TO BE AN ARAB!».
Come adulta vivo in Francia però, in Europa. È una mia scelta. Anche se vado e vengo dai due universi. Pochi giorni fa ero a Tunisi e ho avuto delle lunghe conversazioni con mio fratello. Siamo cresciuti insieme, nella stessa casa, con la stessa educazione, ma la nostra visione del mondo oggi è molto diversa. È stato Michel Foucault a dire che non ci sono le verità, ci sono solo regimi di verità. E certe narrazioni che qui consideriamo “alternative”, che talvolta sono infiltrate dalla Russia e dalla Cina, godono nel mondo arabo di una considerazione più ampia. Per esempio sul passato coloniale e sul ruolo della Francia nelle Primavere arabe. Io vivo quasi in una dissociazione. Ma ho un punto fermo, ed è la libertà. Non la democrazia, non chi ha ragione e chi ha torto. Ma la libertà individuale. Il diritto di esprimersi senza temere conseguenze.

Non la democrazia in sé e per sé quindi?
La democrazia è solo il quadro di riferimento che abbiamo costruito attorno alle libertà civili. Ma dobbiamo cominciare a immaginare qualcosa di diverso.

Nella seconda parte di Tecnopolitica Asma Mhalla lo fa. Osa immaginare una forma di democrazia alternativa, più adatta all’intreccio micidiale di tecnologia e spinte autoritarie. Ma io voglio tornare in Tunisia, alle Primavere arabe: il momento in cui proprio le tecnologie da cui oggi siamo minacciati, Facebook nello specifico, avevano offerto una via di libertà. Forse è stato il picco di speranza legato ai social media?
Il picco della speranza e la sua fine. A quel tempo circolava un’idea molto interessante: quella del giornalismo cittadino, dal basso. Le persone comuni filmavano e postavano ciò di cui erano testimoni. I social media erano diventati una forma di empowerment . Più di dieci anni dopo Musk ricicla quella idea stravolgendola: rende X una piattaforma di democrazia diretta, ma ne fa un’arma. La comunità ideologizzata di X controlla tutto quello che scrivi, quello che pensi. È il contrario esatto della promessa di libertà iniziale della rete.

Ho iniziato a leggere Tecnopolitica il giorno in cui Mark Zuckerberg ha annunciato la fine del fact-checking su Meta. Chiedo a Mhalla se il controllo della verità fattuale non sia destinato all’estinzione.
Il fact-checking sui social media non è efficiente e non convince davvero le persone a riconsiderare le loro idee. Ma resta essenziale da un punto di vista identitario, politico, per affermare che siamo ancora delle democrazie. Perché senza il concetto di verità, la democrazia non può esistere.

Sarebbe utile, a questo punto, stilare un lessico minimo della «tecnopolitica» di Asma Mhalla: i «simulacri», la differenza tra potere e potenza, la singolarità militare… tutti nomi del mondo che abitiamo. Ma occorrerebbe troppo tempo, dovremmo ripercorrere per intero la densità del libro. Mi limito a chiederle di definire la «Tecnologia Totale».
Ci sono molte ideologie in circolazione: di destra, di sinistra, il woke , il Maga… La Tecnologia Totale si colloca a un livello superiore a tutte. Non riguarda l’essere a favore o contro qualcosa ma l’avere i mezzi tecnologici per ottenere il controllo assoluto. Sulla politica, sulla geopolitica, sulle nostre vite, sui nostri cervelli. Ormai da tempo i giganti del tech non sono solo attori economici. Sono attori ideologici. E gli algoritmi non sono soltanto intrisi di pregiudizi. Sono costruiti deliberatamente secondo un disegno ideologico.

Va ammesso che i progressisti sono caduti nella fascinazione di queste tecnologie molto prima della destra che ora ne beneficia…
E le usano ancora! La sinistra europea non aveva capito che i giganti del tech sono anche attori politici. Quando l’ha capito ha iniziato a cambiare idea. Ma le misure intraprese sono deboli e non vanno nella giusta direzione. Perché il problema non è l’etica di cui si discute in Europa: come costruire i dataset e gli algoritmi, tutto l’insieme di norme che il Parlamento discute… È un approccio infantile. Il vero punto è a monte, è lo stato giuridico dei giganti del tech, che sono tutti privati. Musk ha il diritto di manipolare l’algoritmo di X come vuole, perché è suo! Ma non puoi essere un player privato quando possiedi dei servizi pubblici di tale entità e importanza. Non ha alcun senso.

Quindi da dove passa la via di salvezza dell’Europa?
Ci salviamo solo se siamo disposti a perdere molto. Perdere anzitutto accesso alle tecnologie. E non intendo solo i social media. Intendo i cavi sottomarini, i satelliti, la sorveglianza, tutto quello che non vediamo ma è essenziale per la nostra economia. E poi perdere condivisione di dati, perdere strumenti militari, perdere potere geopolitico…». Mhalla ironizza sull’Italia: «Voi non avete problemi però. Con Musk vi si aprono tante belle opportunità…

E come singoli cittadini o singoli utenti cosa possiamo fare?
In Francia, ma anche negli Stati Uniti, c’è stato questo dibattito stupido sulla necessità di uscire da X. È vero che il social è diventato quello che è, un ricettacolo di estrema destra. Puoi immaginare cosa significa esprimersi su X per una donna con un nome come Asma… un incubo, soprattutto qui. Ma uscire da X non è più la soluzione da molto tempo. Perché X è una sorgente primaria di informazioni. E perché lo usano i politici stessi, lo usano Macron e Meloni. Che usciamo tu e io non cambia nulla. X è un pezzo di una sovrastruttura geopolitica più ampia, che va capita. E verso la quale occorre essere molto più audaci di così.

Qualche ora più tardi, in un incontro pubblico al cinema Mk2 di Odéon, una «rassegna stampa partecipativa», Asma Mhalla completerà il ragionamento davanti a una sala piena: esiste, tuttavia, un modo efficace per colpire l’impero di Musk come consumatori, ma non passa da X. Passa dall’attacco al nucleo del suo patrimonio, ovvero Tesla.

In Tecnopolitica compaiono anche altre ricette, pratiche, dalle più astratte alle più semplici. Per esempio: far trascorrere cinque secondi prima di condividere qualsiasi contenuto social, dando tempo al Sistema 2 del nostro pensiero – quello «lento», analitico – di attivarsi e contrastare il Sistema 1, puramente emozionale.
Il rumore costante dei media è il primo ostacolo da superare. Trump va velocissimo, così i media rinunciano ad analizzare. Commentano e basta. Corrono dietro agli eventi. Perciò bisogna fare un passo di lato: limitare l’informazione, selezionarla moltissimo. Io non ascolto più la radio e non guardo la tv. Non leggo più molti giornali. Seguo solo Bbc, “New York Times” e “Guardian”, perché sono fonti primarie, vicine ai centri di potere, almeno per ciò che riguarda la politica americana e il tech. E Fox News, perché bisogna sapere cosa accade in quella narrazione mainstream .

Insomma, la guerra è nel nostro cervello quindi va combattuta nel nostro cervello.
Anni fa, nel gergo militare, si parlava di psy ops , operazioni psicologiche. Le psy ops fanno parte della guerra ibrida in cui siamo tutti coinvolti. Come accademici, intellettuali, scrittori abbiamo il dovere di riconoscere queste forme di manipolazione e di offrire un dibattito pubblico alternativo. Questo mix di realtà e iperrealtà, dopotutto, è matière vivante , materia viva, plastica. Possiamo modellarla. Non siamo condannati.

Nel libro Mhalla propone una terza figura «Big» per controbilanciare la connivenza pericolosissima tra Big Tech e Big State: la nascita del Big Citizen.
Il Big Citizen è un cittadino che ha capito di essere un soldato. Un soldato che combatte in una guerra ibrida, invisibile ma costante. Perché tutte le tecnologie con cui abbiamo a che fare sono duali (ovvero hanno un uso civile esplicito e uno, nascosto, militare). Questo ad esempio è uno smartphone ma è anche un’arma. Lo è per design.

C’è stato un momento specifico in cui hai realizzato la dualità delle tecnologie che tutti usiamo?
La guerra in Ucraina è stata la svolta nel mio lavoro accademico. La guerra informativa si è riversata nel dibattito pubblico. D’un tratto erano tutti preoccupati della manipolazione dei social media da parte della Russia e della Cina. Nelle prime settimane la guerra vista da X sembrava un videogame. L’Ucraina stessa ha fatto psy ops : ti ricordi i video della Tour Eiffel bombardata? Servivano a suscitare la nostra paura. La prima guerra televisiva è stata l’Iraq, ma l’Ucraina è stata la prima guerra dei social media. E poi, dopo qualche settimana, ci siamo abituati. E questo abituarsi è l’altro grosso ostacolo alla nostra libertà.

Ma forse dovremmo considerare una libertà fondamentale anche quella di non farsi coinvolgere? Gli americani sembrano rivendicarla.
L’aspetto molto interessante della guerra informativa è che, anche se ne sei consapevole, perfino se è l’oggetto del tuo studio come nel mio caso, sei comunque soggetto alla sua azione. All’atmosfera che crea. Ti senti ugualmente stanco e malato, infettato dai dubbi. Hai la stessa tentazione di dire: ora basta, vaffanculo. Il nostro sistema cognitivo è elementare. Nel frattempo, però, il mondo reale che hai attorno scompare sempre di più.

Qui l’intervista completa su La Lettura.

Vai al libro: https://www.addeditore.it/catalogo/asma-mhalla-tecnopolitica/

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