Fenomeno Corea del Sud: l’intervista a Paola Laforgia
L’intervista a Paola Laforgia a cura di Ludoovica Brugnoli sul Corriere del Trentino.
Laforgia cosa l’ha spinta a interessarsi della Corea del sud?
Ho iniziato a ascoltare musica e vedere film coreani già a tredici anni, nel 2007. È una passione nata per puro caso: su internet ho trovato una cantante giapponese e da quel momento ho iniziato a seguire un forum online. Così ho scoperto sia le serie tv che una cantante coreana, Boa, che all’epoca non era affatto conosciuta: in quel periodo solo nicchie minuscole di persone ascoltavano musica coreana in Europa e in Italia.
Quando ha preso piede davvero la cultura sudcoreana?
Le cose sono cambiate solo pochi anni dopo. Già nel 2012 i Big Bang, gruppo K-pop, ha vinto gli Mtv Trl Awards italiani. È con la pandemia, poi, che tantissime persone si sono appassionate di K-drama e musica coreana. Banalmente perché si era costretti a casa e le serie hanno iniziato a circolare su Youtube, e soprattutto su Netflix, permettendo un’accessibilità maggiore a qualcosa che prima era più difficile da rintracciare. Dopo qualche anno è iniziata anche la passione per il cibo. Ora le comunità di fan sono sempre più grandi, anche se ci sono ancora stereotipi legati alla Corea del Sud.
Che tipo di stereotipi?
Dei pregiudizi che criticano i presunti “lati oscuri” del Paese. Come per esempio il fatto che tutti sarebbero depressi. Ma anche che i cantanti coreani sembrerebbero dei robot, che non sarebbero “autentici” e che la musica sembra prefabbricata e costruita a tavolino, una sorta di scopiazzatura di qualcosa che viene dagli Stati Uniti.
Come racconti, nel tuo libro, il fattore K?
Dimostrando che la passione per la cultura coreana non è una moda passeggera, ma qualcosa che si è radicato in trent’anni e di cui ora vediamo i primi frutti. L’idea è mostrare come si è propagata quest’onda, la Hallyu di cui si parla molto anche in accademia, dalla Corea ai Paesi limitrofi, fino al sud-est asiatico, per arrivare agli Stati Uniti e all’Europa.
Tra tutti, il caso Bts è il più emblematico del successo del K-pop: come spieghi il loro successo mondiale?
Credo dipenda da una serie di fattori. In parte alcune band coreane gli avevano aperto la strada: si trovavano nel posto giusto al momento giusto. Poi, sono sempre riusciti a affrontare temi interessanti per gli adolescenti nelle loro canzoni, dando prova di essere dei performer incredibili ai concerti, cosa che nel pop è fondamentale. Ammetto di essere io stessa fan dei Bts, ma meno delle ultime canzoni in inglese, che non ho amato perché si sono adattate per raggiugere più pubblico possibile, anche internazionale. Anche se si deve tenere a mente che il successo l’hanno raggiunto quando la discografia era interamente in coreano.
Dal film di Bong Joon-ho, Parasite, alla serie Squid Game, sembra che il tema della disuguaglianza sociale ricorra nel K-drama
Anche se nella musca k-pop mainstream è meno evidente, quello della disuguaglianza sociale è assolutamente centrale nella società coreana. In Corea del Sud, a tal proposito, si parla di una “teoria del cucchiaio”: un modo per riferirsi metaforicamente alla differenza di classe, distinguendo chi nasce ricco (ovvero i cucchiai d’argento) da chi è meno abbiente (rappresentato dal cucchiaio fatto di materiali più poveri).
E della cultura italiana in Corea cosa viene apprezzato di più?
Sicuramente la cucina. Il ristorante italiano per un appuntamento romantico è d’obbligo. Per quanto riguarda la musica c’è meno interesse, ma tante persone vanno in Italia per studiare lirica.
Qui l’intervista completa sul Corriere del Trentino.
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