Giocare è un’arte: l’intervista a C. Thi Nguyen
L’intervista a C. Thi Nguyen a cura di Gilles Nicoli su minima&moralia.
Johan Huizinga rispondeva di sì con Homo Ludens; Roger Caillois rispondeva ancora di sì con I giochi e gli uomini; e Cristopher Thi Nguyen conferma la stessa risposta con Giocare è un’arte, recentemente arrivato in Italia per merito di add editore, nella traduzione di Andrea Chiarvesio. Di molti libri si dice che siano una “cassetta degli attrezzi”; ebbene, Giocare è un’arte è l’intero ferramenta degli strumenti necessari a ragionare sul gioco. Sviluppare una teoria capace di tener conto di tutte le forme ludiche non è affatto facile, ma le tesi di Thi Nguyen, che vertono sull’idea di agency e introducono concetti come la fluidità e la distanza agenziale, sono solide, brillanti, e probabilmente capaci di cambiare per sempre il vostro modo di pensare al gioco. È un piacere seguire il filo dei suoi ragionamenti, prevedere a quali sviluppi potrebbero portare, intravedere alcune possibili conseguenze, immaginare subito certe controargomentazioni che avrebbero bisogno di essere prese in esame, e trovare puntualmente tutto quanto nelle pagine successive. Attingendo alle proprie esperienze personali, e in un dialogo serrato con altre teorie suscettibili di essere confermate o smentite o poste sotto una nuova luce dalla sua, Thi Nguyen ha scritto un saggio sul gioco che ha già le sembianze di un futuro classico. L’ho raggiunto per fargli alcune domande.
Nell’introdurre questa intervista, ho chiamato in causa Johan Huizinga e Roger Caillois in qualità di autori che, come te, si sono interessati al gioco nella sua accezione più astratta e ampia possibile. Ho trovato il tuo libro, però, molto diverso da Homo Ludens e I giochi e gli uomini, e credo che questo sia dovuto ad almeno due motivi. Il primo è che Huizinga era uno storico, Caillois un antropologo, mentre tu sei un filosofo. Allora inizio col chiederti dell’utilizzo della filosofia analitica: come ha influito sul tuo modo di pensare al gioco, e sulla scrittura del tuo libro? Quali sono stati, a tuo modo di vedere, i vantaggi e i limiti del trattare questo argomento con gli strumenti della filosofia analitica?
Innanzitutto: adoro i lavori di Huizinga e Caillois, e li ho presi come principali fonti di ispirazione.
Le loro osservazioni, le loro intuizioni e il loro approccio di base sono stati estremamente importanti per me nel capire la natura e il valore dei giochi. Quanto a me, ritengo di svolgere un ruolo che è tipico e appropriato per un filosofo analitico: leggo le ricerche degli altri e poi cerco di offrire utili chiarimenti concettuali – concetti – per contribuire a creare un vocabolario più chiaro di termini e strumenti utili – in modo da poter fare ulteriori progressi.
Ma ho anche la possibilità di raccogliere alcune riflessioni molto utili da altri campi della filosofia, che aiutano a capire i giochi. Perché i giochi sono al centro di alcune questioni molto filosofiche – la natura dell’azione, il valore della vita umana, o il modo in cui i nostri valori guidano le nostre azioni. Ciò che la filosofia analitica ha da offrire è un insieme di strumenti chiari e utili che derivano da una lunga storia di riflessioni molto attente sul funzionamento della razionalità, della motivazione, del valore e dell’arte.
Per esempio, credo che uno dei contributi chiave del mio libro sia quello di articolare con chiarezza la distinzione tra il gioco per il risultato e il gioco sfidante. Giocare per il risultato è giocare per il valore della vittoria. Il gioco sfidante consiste nel farsi prendere temporaneamente dall’interesse per la vittoria, ma solo per il gusto della sfida. Sono stato in grado di articolare questa distinzione perché ho potuto attingere a una vasta quantità di fonti, per lo più di teoria etica e psicologia morale, su come scegliamo i nostri obiettivi, su come stabiliamo i nostri valori – e su come spesso ci basiamo su un insieme di principi molto ristretto e particolare, e solo occasionalmente ci fermiamo per fare un passo indietro e considerare la nostra vita alla luce dei nostri valori più importanti.
Molte di queste idee, a mio avviso, erano già presenti tra le righe di lavori come quelli di Huizinga e Caillois. Ma ho potuto collegarle in un contesto più ampio con gli strumenti che la filosofia analitica ha sviluppato. Allo stesso modo, credo di essere riuscito ad aggiungere una certa ricchezza alle idee già presenti nei loro lavori, utilizzando gli strumenti molto accurati che i filosofi dell’arte hanno sviluppato sulla qualità del mezzo artistico, sulla natura dell’esperienza estetica e sul modo in cui le norme sociali regolano il nostro rapporto con l’arte.
I limiti della filosofia analitica sono che, lasciata a se stessa, non esiste un terreno empirico. Nella sua versione peggiore, la filosofia analitica è un gruppo di persone che cercano le proprie intuizioni e si arrovellano sulle definizioni, perdendo enormi parti del mondo reale. Per questo motivo trovo sempre essenziale attingere a un insieme molto ampio di fonti esterne alla filosofia, a persone che osservano il mondo reale. Per questo progetto, ad esempio, ho finito per leggere antropologi, psicologi, sociologi e storici. In realtà, la maggior parte delle cose che ho imparato proviene dai blog e dai forum online dei game designer e delle comunità di appassionati – spesso erano molto più articolati, riflessivi e profondi nel descrivere nel dettaglio il modo in cui funziona il game design, rispetto ai lavori accademici più istituzionalmente legittimati.
Il secondo motivo secondo me è che Huizinga e Caillois, i cui libri citati sono usciti nel 1938 e nel 1958, non potevano conoscere i videogiochi. La comparsa del videogioco secondo te impone, in qualche maniera, un ripensamento del gioco in generale?
Penso che molti studi sui videogiochi tendano a trattarli come una categoria completamente nuova. Oppure affrontano i videogiochi come una tipologia di cinema. Ma ciò che mi ha colpito, dopo aver letto il filosofo Bernard Suits sui giochi, era quanto i videogiochi fossero profondamente simili ad altri giochi, come gli sport o le carte. La struttura motivazionale di base del videogiocare è, proprio come in altri giochi, quella di affrontare volontariamente alcuni ostacoli per il gusto della sfida. Le mie esperienze di arrampicata su roccia, di giochi da tavolo e di videogiochi sono state tutte accomunate dall’interesse per la bellezza del processo, per le azioni interessanti che il gioco mi ha portato a compiere. E questa bellezza del processo deriva chiaramente dal modo in cui le regole e i sistemi di punti dei giochi modellano le nostre azioni. Giochiamo a tutte queste cose, spesso, perché danno forma a un’esperienza di sfida che troviamo meravigliosa o ricca o soddisfacente. Ci sono ovviamente delle differenze tra i videogiochi e gli altri giochi, ma c’è anche una chiara somiglianza di fondo.
Due passaggi che ho trovato particolarmente brillanti sono quelli in cui paragoni il giocatore all’amante (per contrasto) e all’agente razionale delle teorie economiche (per paradosso). “Amare senza impegnarsi significa essere un pessimo amante ma con i giochi, il vero problema è l’eccessivo impegno verso gli obiettivi del gioco”, scrivi. E poche pagine più tardi: “Si potrebbe notare che le ipotesi dell’economia classica – che siamo tutti agenti identicamente razionali, interessati a sé stessi e impegnati in una competizione puramente orientata al proprio interesse – sono false nella vita reale, ma giuste nella maggior parte dei giochi”. Forse è proprio allontanandosi dall’esempio ludico che si coglie appieno la portata delle tue teorie sull’agency?
John Dewey dice che l’arte è semplicemente la vita ordinaria, cristallizzata. E che l’arte prende i tipi di esperienze che abbiamo nella vita ordinaria e trova in esse un’unità rafforzata. È esattamente ciò che penso stia accadendo con i giochi. Nella nostra vita ordinaria subiamo manipolazioni agenziali di ogni tipo. Cambiamo il nostro modo di agire a seconda del ruolo che stiamo assumendo – cambiano gli obiettivi, l’attenzione, le abilità che usiamo. Quando sono amichevole con le persone, e poi passo al mio ruolo di professore, cambio – smetto di prestare attenzione a ciò a cui normalmente presterei attenzione. Ignoro fatti relativi ai miei studenti che mi interesserebbero molto in qualsiasi altro contesto di vita sociale: chi è divertente o sarebbe bello frequentare, chi condivide i miei gusti musicali. Per entrare in questo ruolo è necessario un cambiamento di agency. I giochi non sono unici in questo senso, ma sono un luogo che mette in evidenza questa fluidità agenziale. Credo quindi che i giochi siano un punto di partenza per richiamare l’attenzione su parti di noi stessi che spesso vengono ignorate – la fluidità, l’instabilità, la flessibilità.
Una cosa che mi ha sorpreso è stata il tuo sospendere il giudizio a proposito della questione se i videogiochi siano arte o meno: l’ho trovato strano sia perché a me sembra ovvio di sì, sia perché il tuo libro, in fondo, si intitola Giocare è un’arte.
Credo sia ovvio che i giochi sono arte, ma penso anche che non valga davvero la pena discuterne – principalmente perché i decenni di dibattito filosofico sulla definizione di “arte” li trovo noiosi e non particolarmente utili per le questioni che mi stanno a cuore. Per lo più questi dibattiti sul fatto che i giochi siano arte o meno consistono nel sottolineare le somiglianze con altre forme d’arte, e in qualche modo sembrano evitare la questione veramente fondamentale. Soprattutto perché questi metodi tendono a evidenziare le parti dei giochi che sono simili alle altre arti – come letteratura e cinema – e a ignorare ciò che è veramente distintivo. La vera questione fondamentale, a mio avviso, è se i giochi valgano la pena come modo di passare il proprio tempo. Volevo quindi evitare il dibattito sull’arte, per concentrarmi sulla questione più importante.
Ma penso che siano una forma d’arte e, da quando ho scritto il libro, ho trovato un modo più semplice per dire perché lo penso. Un punto di vista comune è che, in altri aspetti della vita umana, quando valutiamo qualcosa non ci preoccupiamo particolarmente della tecnica di esecuzione – ci interessa solo che il risultato sia buono. Nel nostro rapporto con l’arte, invece, è cruciale il fatto di apprezzare profondamente non solo l’impatto che l’opera d’arte ha su di noi, ma anche il modo in cui in cui viene ottenuto questo risultato – il modo esatto in cui l’artista ha manipolato il medium per farci reagire in un certo modo. E credo che l’apprezzamento dei giochi condivida sicuramente questa qualità. Noi apprezziamo i giochi vedendo come le regole, le meccaniche e le sfide ci portino a impegnarci in un’attività interessante.
Una cosa che invece non mi ha sorpreso per niente è stata trovare, nella ricca bibliografia del tuo saggio, pochissimi titoli tradotti in italiano. Per concludere allora, a beneficio di lettrici, lettori, e case editrici italiane, ti chiedo quali siano secondo te i libri fondamentali sul gioco.
Hai citato due dei più importanti. Alcuni altri sono, a mio parere, The Grasshopper di Bernard Suits (La cicala e le formiche. Gioco, vita e utopia, Edizioni Junior, 2021), Half-Real di Jesper Juul e Play Matters di Miguel Sicart. I migliori studi però si trovano per la maggior parte sotto forma di articoli. Ce ne sono molti – troppi da elencare. Forse l’articolo più bello è uno di quelli che non ho trattato nella versione finale del libro – ma solo perché faceva parte di un intero capitolo che ho tagliato perché non riuscivo a dire nulla che ritenevo vero o utile. Ma mi sarebbe piaciuto trovare un modo per parlarne in qualche maniera. Comunque, quell’articolo è “Playfulness, ‘World’-Travelling, and Loving Perception” di Maria Lugones, uno splendido saggio di una femminista e teorica critica delle razze sul rapporto tra gioco, leggerezza, apertura e capacità di cambiare prospettiva.
Qui potete trovare l’intervista integrale: https://www.minimaetmoralia.it/wp/interviste/giocare-e-unarte-intervista-a-c-thi-nguyen/