Le persone, soltanto le persone
-di Enea Brigatti-
Del cinema mi piace tutto: se posso arrivo con il giusto anticipo, pago il biglietto, prendo ogni volantino appoggiato sul bancone, spero ci sia qualche cartolina promozionale stampata su cartoncini abbastanza rigidi, mi dirigo al baretto per il caffè, leggo i volantini e penso miseria, quanti film non ho ancora visto, settimana prossima vengo tutti i giorni, questa volta lo faccio davvero.
Entro, scelgo un posto nella prima metà della sala e aspetto che inizino i trailer, mi accontento anche delle pubblicità, specialmente se di realtà locali e realizzate ingenuamente male.
Spero sempre ci sia più gente possibile e diffido di chi si lascia infastidire dal vociare o dai commenti ad alta voce dei vicini: il pacchetto deve essere completo, il cinema è lo schermo gigante ma anche la persona che ti sta accanto, o dietro, o davanti.
Questo cerco dal cinema, inteso come rituale, come azione.
Qualcosa che si avvicina a mettersi in coda alle poste centrali di Torino, ma con il grande vantaggio del film di mezzo.
L’alternativa esiste ed è il divano, che è meraviglioso, ma concilia il sonno a tradimento, ed è meglio per le serie televisive.
La sera del 25 aprile il cinema Massimo è al completo: in programma c’è Libere il nuovo documentario di Rossella Schillaci dedicato alle donne che hanno vissuto prima l’esperienza della Resistenza e poi il periodo del dopoguerra.
La sala piena di persone, la musica che si alza, le immagini d’archivio rese vive dalle voci fuori campo delle protagoniste di quegli anni: a un certo punto l’aria si è fatta densa, e la commozione si è mescolata alla rabbia.
Seduti sulle poltroncine ci siamo lasciati trafiggere dagli occhi delle donne che passavano sullo schermo.
Uno sguardo fiero, vivo nonostante tutto: ragazze che per liberare l’Italia dal nazifascismo avevano imbracciato il fucile, inforcato la bicicletta per pedalare chilometri su chilometri sfidando i posti di blocco, preso il posto degli uomini in fabbrica, camminato sui calcinacci delle case distrutte dai bombardamenti, negli anni seguenti la fine della guerra vengono spinte ai margini della vita pubblica, relegate nuovamente al ruolo di custodi del focolare domestico – mero ingranaggio della società industriale che le voleva sia madri che lavoratrici, mai donne, mai protagoniste.
Il giorno seguente, quando telefono a Rossella Schillaci per farmi spiegare qualcosa in più riguardo a Libere mi dice: «Quello che ho cercato di fare è stato di non raccontare gli aneddoti riguardo la storia delle partigiane, che in realtà già si conoscono, ma di selezionare fra il materiale a disposizione le riflessioni estremamente lucide di queste donne: ho scelto e messo insieme ciò che aiutasse a conoscere e capire il passato, ma che allo stesso tempo suggerisse un pensiero sulla contemporaneità.
Per me è stato fondamentale che si creasse un dialogo fra passato e presente, che servisse per comprendere la condizione della donna, e della società in generale, oggi.
È necessario togliere la retorica, per far sentire la Resistenza più vicina: spesso si racconta questo periodo come un periodo di eroi e eroine, ed è così tutti, erano tutti eroi e eroine ma allo stesso tempo erano anche persone normalissime e giovanissime che senza strumenti sono riusciti a fare tutto questo ugualmente».
Il documentario non è celebrativo né troppo retorico: si avverte l’esigenza di cambiare registro rispetto al racconto di quegli anni.
Si dice spesso che noi giovani sappiamo poco o nulla di questa storia, ma la ragione è da cerarsi nel modo in cui si presenta questa storia, ossia come un blocco unico, come un verbo che bisogna prendere in maniera dogmatica.
Ma facciamo un passo indietro: come nasce Libere, chi lo ha voluto, chi ci ha lavorato.
L’idea di raccontare le donne partigiane parte da Paola Olivetti, direttrice dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, in occasione delle celebrazioni del Settantesimo anniversario della Liberazione.
Il progetto nasce come tentativo di valorizzare la mole ingente di materiale che i diversi archivi agglomerati attorno alla realtà del Polo del ‘900 contengono, con la necessità di restituire una voce a questo materiale, che ha una forza, una vitalità che è necessario fare emergere e non tenere sotto chiave.
L’assessorato alla cultura del comune di Torino ha stanziato inizialmente i fondi necessari per iniziare la ricerca in archivio delle immagini, dei filmati e delle registrazioni migliori per raccontare questa storia, successivamente sono intervenuti per finanziare il film la Compagnia di San Paolo, la Film Commission della Regione Piemonte e il Lab80 di Bergamo che ne cura anche la distribuzione nelle sale.
Nel momento in cui Rossella Schillaci prende in mano il progetto lo stravolge, allontanandosi dai cliché attraverso i quali si poteva fare un film di questo genere e rovesciando il punto di partenza del film: nel documentario sentiamo le voci delle partigiane ma non vediamo mai il loro volto.
«Quando sono arrivate le foto dall’Istituto della Resistenza di Biella e Vercelli in cui si vedono partigiane che a me sembravano bambine di quattordici o quindici anni mi sono fermata a riflettere sul fatto che solitamente vediamo queste persone già anziane e ci dimentichiamo che hanno fatto tutto questo da ragazzine.
Quando invece mi trovavo a lavorare sulle interviste dopo un po’ che osservavo questi volti di anziane sentivo uno strano effetto di allontanamento che non avvertivo quando avevo a che fare con il materiale audio: ad esempio quando ero in viaggio e ascoltavo queste voci per selezionarle la mia immaginazione partiva e le vedevo ragazze.
»
«Ho sempre fatto documentari di osservazione, questo è il mio primo approccio al montaggio di materiale d’archivio; ma il tema della resistenza mi ha sempre interessato, i personaggi dei miei documentari sono sempre personaggi resistenti che vivono in contesti particolari e in modo molto forte tentano di uscirci.
L’altro tema che mi interessa è quello delle donne, che è una tematica che mi sembra sempre poco toccata: mostrarne la complessità, raccontare figure femminili che vanno fuori dalle etichette e dagli stereotipi.
In questo documentario io non volevo mostrare gli uomini e questo è stato un grosso problema perché di donne negli archivi ce ne sono pochissime: appena una donna entrava nell’inquadratura la camera si spostava, oppure staccava.
L’idea era quella di valorizzare il punto di vista delle donne, quanto per loro sia stato fondamentale quel periodo di scoperta di cosa fosse la politica, sia per lottare accanto agli uomini, come gli uomini, e chiedere poi la parità, gli stessi diritti nel mondo civile e in quello del lavoro.»
Libere è un racconto corale, potente proprio perché ci permette di concentrarci sulle parole, lasciando che la musica, a cura di Giorgio Canali, sottolinei la carica emotiva delle immagini che scorrono sullo schermo.
Un lungometraggio che mette al centro l’importanza del conservare per poi ricordare, mostrando gli scorci degli archivi dal quale sono stati recuperati i materiali per la costruzione del documentario.
La chiusura del film è però affidata a una breve carrellata di ritratti delle partigiane le cui voci accompagnano le immagini durante la durata del film: Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Giuliana Gadola Beltrami, Joyce Lussu, Anna Cherchi, Marisa Sacco, Maria Ariaudo, Lucia Boetto Testori, Alda Frascarolo Bianchi, Lia Corinaldi, Marisa Rodano, Carmen Nanotti, Carla Dappiano.
Perché quello che conta, in fondo, come diceva il titolo di una bella raccolta di racconti di Christian Raimo uscita qualche anno fa sono «le persone, soltanto le persone».
Qualche settimana fa a una proiezione di cortometraggi sovietici di animazione, a sala quasi vuota, una signora ha deciso proprio di sedersi di fianco a me.
Assomigliava a Susanna Tamaro e aveva dei pantaloni mimetici, da militare, e uno zaino viola con la frutta ricamata sopra.
«Posso? Ho fatto una corsa per arrivare in tempo, ma non me li sarei mai persi questi corti, per nessuna ragione al mondo. Ma lei lo sa che una volta ho visto uno spettacolo di burattini di Trnka dal vivo? Una cosa bellissima. Guardi lì, qualcuno che è stato qui prima di noi deve essere stato un appassionato della Pimpa.»
E indica il soffitto del cinema: lì in mezzo a una superficie enorme un palloncino della Pimpa sbatteva stancamente contro la parete, scappato a chissà chi.
Un’immagine di una malinconia così tenera che neppure il miglior Wyeth poteva immaginarla e dipingerla.
Pochi minuti dopo, quando si è spenta la luce la signora è caduta in un sonno profondissimo, russando sonoramente per le due ore di proiezione.
Le persone, soltanto le persone.