L’apocalisse dentro e fuori: l’intervista a Elvia Wilk a cura di Veronica Gisondi su Rivista Studio.

Nel libro sostieni – citando Doris Lessing – che il soggetto nascosto di tutta la letteratura, e simbolo della condizione umana sulla Terra, sia un “vuoto apocalittico”.
Lessing ci dice che anche in un’apocalisse c’è un potenziale nascosto da cui possono emergere nuovi significati. Nella cultura popolare e in letteratura, però, dell’apocalisse emerge quasi sempre solo l’aspetto catastrofico. Forse ad attrarci è l’idea di semplificazione che un evento così assoluto porta con sé. Ma l’apocalisse che stiamo vivendo non è un fenomeno improvviso: è una lenta trasformazione verso una realtà a noi sconosciuta e forse incomprensibile, e per affrontarla non abbiamo altra scelta se non cambiare i nostri schemi e reinventarci nel presente.

Questo “vuoto apocalittico” si manifesta in tutto il suo potenziale a metà del libro, in un saggio in cui parli di due donne che si innamorano di un buco nero.
Davanti alla forza di gravità estrema dei buchi neri, così come alle catastrofi dell’amore o del dolore, i nostri strumenti analitici crollano. In quel saggio ho cercato di mostrare come il linguaggio possa arrivare solo fino a un certo punto nello spiegare questi eventi, e di come fallisca. Mentre mi interrogo su come funzionano le storie, il desiderio che le muove, la trama, al centro della scrittura resta sempre un vuoto, un vuoto di significato. La letteratura cerca di colmare questo vuoto, e quando ci riesce quella che vediamo è, superata l’apocalisse, una sorta di resurrezione, un inaspettato risveglio della coscienza. È quello che succede nella seconda metà del libro.

A proposito di coscienza, una domanda che ricorre spesso nel libro è: dove inizia e dove finisce l’identità? Dove inizia il mondo esterno?
L’idea di un sé isolato non ha più senso per me. La gravidanza è l’esempio più semplice in cui due identità coesistono per un certo periodo prima di separarsi. Il nostro corpo ospita trilioni di batteri senza cui non potremmo vivere. Viviamo in simbiosi e non c’è un confine netto tra dentro e fuori. Le distinzioni gerarchiche nate con l’Illuminismo (esseri umani in cima, poi natura e la tecnologia alla base) non reggono più.

Cosa dovremmo aspettarci invece?
Il singolo individuo è limitato da un corpo e da una soggettività che gli impediscono, finché opera da solo, di comprendere trasformazioni epocali e su larga scala. È uno degli aspetti che esploro nel primo saggio: i racconti che prendo in esame (di Anne Richter, Kathe Koja, Han Kang, Jenny Hval e Karen Russell) hanno tutti a che vedere con la creazione di un sé che si contamina ed estende oltre l’individuo, un sé interconnesso e interdipendente, i cui effetti sul mondo possono essere imprevedibili.

Il rapporto tra sé, corpo e mondo è fondamentale nel misticismo. La tradizione mistica ha influenzato la tua scrittura?
Leggere i testi mistici mi ha fatto apprezzare come mente e corpo registrino le esperienze in modo diverso, ma sempre restando in comunicazione e, appunto, interdipendenza. Credo in questo legame, nell’interazione tra esperienza e biologia, e non credo lo si possa ridurre a un semplice rapporto causa-effetto. Penso spesso a come il corpo sia una fonte primaria di esperienza, un elemento fondante della tradizione mistica. La questione dell’autorità del corpo è connessa al mio rapporto con il sistema medico-industriale statunitense, in cui la scissione tra corpo e mente è ancora violentissima. Abbiamo il compito di prestare attenzione a ciò che il corpo ci dice, perché nessun altro lo farà.

Cosa ti affascina del lavoro di figure come Ildegarda di Bingen, Angela da Foligno e Simone Weil, intimamente legate all’esperienza mistica?
Trovo i loro scritti estremamente sexy. Mi affascinano per il loro potere politico, che consiste precisamente in una rinuncia alla partecipazione. In modo simile, mi interessano quegli scrittori che smettono di scrivere.

Perché?
Allontanarsi dalla vita pubblica, dai legami familiari e amorosi, da qualsiasi contatto sociale per avvicinarsi al divino, o dedicarsi ai libri per accedere più pienamente all’esperienza umana è un bellissimo paradosso. Mi chiedo se sia questo l’atto creativo definitivo.

Come accennavi prima, all’inizio del libro prendi in considerazione una serie di racconti in cui le protagoniste si trasformano in pianta: un atto di resistenza, dici, che nega il corpo e le relazioni con gli altri per trascendere non solo i limiti dell’identità, ma anche della nostra specie.
Le storie di donne che diventano piante costituiscono uno snodo centrale del libro. Il loro non è un atto di passività, di rimozione di sé o di morte, bensì una rivendicazione attiva della vita, solo in una forma diversa che sfida le distinzioni di specie.

Lo scardinamento del concetto di “umanità” per avvicinarsi al non-umano è un principio comune alla mistica e alla letteratura new weird che approfondisci in diversi saggi del libro. Perché invece secondo te si sente dire sempre più spesso che dobbiamo “restare umani”?
Sia in questo libro che nel mio precedente romanzo (Oval, edito da Zona42 nella traduzione di Chiara Reali) mi concentro sull’ossessione sociale per l’empatia, intesa come strumento necessario per diventare “più umani”. Il problema non è la mancanza di sentimenti, ma credere che gli esseri umani siano eccezionali rispetto al resto dei viventi e del mondo. Così come l’idea che la nostra sia l’unica forma di intelligenza possibile. Questa concezione influenza oggi anche i discorsi sull’intelligenza artificiale, spingendoci a misurarla in termini umani, o in competizione con noi. Ma l’AI non sarà mai umana.

Contaminazioni e trasformazione di sé. Il tuo libro racconta proprio di “come si può diventare ciò che si studia”. Cosa stai studiando ora? 
Narrazioni dell’estinzione mi ha avvicinato a personalità, libri, opere d’arte e racconti non miei: mi ha aperto alle contaminazioni e ha favorito una trasformazione. Ora invece sto scrivendo un libro sulla malattia e sull’insonnia, di cui soffro. Mi sono quindi rivolta all’interno, ho studiato il mio corpo avvicinandomi alle mie esperienze primarie. Ma scriverne ha reso l’insonnia ancora più insopportabile. Forse non è stata una buona idea.

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