Meo Sacchetti è uno dei giocatori di basket più celebri in Italia. Pilastro della nazionale che nel 1980 ha vinto la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Mosca e nel 1983 l’oro agli europei, ha segnato la pallacanestro italiana giocando a Bologna, Torino e Varese. Poi, dopo un grave infortunio, la svolta e l’inizio di una carriera da allenatore che lo ha portato a vincere Coppa Italia, Supercoppa e Scudetto con la Dinamo Sassari. Un triplete forse irripetibile per una squadra provinciale e il primo grande trionfo del basket sardo. Poi Cremona, con cui ha vinto un’altra coppa Italia, e la nazionale sulla cui panchina siede dal 2018 sostituendo Ettore Messina.
Ma Meo Sacchetti è molto di più: personaggio spumeggiante, diretto nei modi e capace di sorprendere tifosi e addetti ai lavori con la sua schiettezza e simpatia.
Nato ad Altamura in un campo profughi, orfano di padre, Sacchetti ha dovuto farsi largo per trovare il proprio posto nel mondo della pallacanestro. «La vita molto presto mi ha detto arrangiati» dice Sacchetti in questa sua autobiografia nelle cui pagine emerge tutta la carica umana di un grande e amatissimo personaggio dello sport italiano.
«Se a un certo punto della vita mi sono trovato a festeggiare uno scudetto abbracciato a mio figlio Brian, lui nei panni di giocatore e io in quelli di allenatore della Dinamo di Sassari, è tutta colpa di una pianta di glicine.»
Leggi un estrattoSe a un certo punto della vita mi sono trovato a festeggiare uno scudetto abbracciato a mio figlio Brian, lui nei panni di giocatore e io in quelli di allenatore della Dinamo di Sassari, è tutta colpa di una pianta di glicine cresciuta storta nel cortile della mia casa di Novara...