Esplorare il fumetto oltre la “fog of war”: l’intervista a Matteo Gaspari
L’intervista a Matteo Gaspari a cura di Nicole Brena su Lo Spazio Bianco.
Con il suo sguardo arguto e critico Matteo Gaspari si addentra in autorialità, canone, punti di ancoraggio, passione per il linguaggio del fumetto, formati, propositi e contenuti del graphic novel contemporaneo. Fra la sua pubblicazione Altri fumetti – Incursioni oltre il graphic novel e la curatela della collana di add editore emerge un unico, fondamentale consiglio: scegliere bene e leggere con calma.
Buongiorno Matteo, benvenuto su Lo Spazio Bianco e grazie mille per il tempo che ci dedicherai. Altri fumetti – Incursioni oltre il graphic novel sta per compiere un anno.
Che riflessioni ti hanno portato a scrivere il libro? Che punto sentivi la necessità di fare sul graphic novel?
Grazie a voi! All’epoca provavo un grande senso di stanchezza e un po’ di piccato (ma silenzioso) fastidio. Stavano uscendo tanti fumetti belli, ma mi sembrava che (almeno nella parte di mondo che frequentavo) si guardasse sempre alle stesse cose. Libri importantissimi, anche molto belli, di autori e autrici che amo e stimo sia artisticamente che umanamente, ma che mi pareva catalizzassero l’attenzione in maniera miope e poco sana.
Sono sempre stato molto convinto che, se vogliamo che il fumetto arrivi e cresca (e prima di crescere deve arrivare, ma questo è un altro discorso), dobbiamo noi in primis essere appassionatɜ di fumetto. Tutto quanto. Non “di un certo fumetto”. Prendo Chris Ware perché è un esempio fulminante. Che come autore sia fondamentale, serissimo, profondissimo, semioticamente rivoluzionario e via discorrendo è fuori discussione. Ma se riconosciamo il valore solo lì o al limite nei suoi emuli, se nemmeno pensiamo che possa esserci del valore altrove, abbiamo davvero capito qualcosa di fumetto?
Credo che la critica e le operatrici e operatori culturali che a vario titolo operano in questo campo abbiano una responsabilità in questo senso: non è leggendo solo Chris Ware e parlando solo di Chris Ware che usciamo dal dilettantismo, che combattiamo lo stigma o che contribuiamo a far passare l’idea che il fumetto è #narobba. Anzi, quest’approccio mi pare esattamente lo specchio di una passione amatoriale mascherata da seriosità: non abbiamo argomenti per difendere, criticare e analizzare cose che siano anche solo un po’ diverse da quelle che qualcun altrə ha difeso, criticato, analizzato e quindi legittimato prima di noi. E quindi non lo facciamo. Al più ci spingiamo ai fumetti che ci assomigliano, e più ci assomigliano meglio è.
Ecco, forse il punto che volevo fare, e che si rispecchia un po’ nel titolo del libro, era in fondo questo: ci sono tanti fumetti e tanto del buono che sta succedendo nel fumetto succede fuori dai “titoli di cui si deve parlare per forza”. Poi magari era ed è solo una paranoia mia, che mi infastidisco facilmente.
Questo formato cosa ha sancito nel mondo del fumetto?
Sui perché e i percome e le implicazioni del graphic novel non mi dilungherei, ché se mi avvio per quella china non finisco più. Diciamo però che la mia parte cinica (forzando un po’ la mano) direbbe che forse il più grande successo del graphic novel è stato creare un prodotto che permettesse a lettrici e lettori di fumetti di leggerli senza farsi bullizzare. Poi non è vero eh, c’è tutta una questione di rinnovata libertà autoriale, di esplosione di generi e di possibilità narrative, di invenzioni linguistiche, di cambiamenti di mercato e quindi di demografia… Insomma, è un fenomeno complesso.
Però al contempo quel dubbio cinico mi rimane. Perché ho sentito e sento troppe persone che mi dicono “no, io non leggo i fumetti, io leggo i graphic novel” (o peggio “le graphic novel” o, dolore al cuore incoming, “le graphic”). E noi facciamo finta di dirci che abbiamo capito, che il fumetto è un linguaggio e il graphic novel una sua declinazione merceologica, che non è una questione di valore, ma poi leggiamo solo graphic novel o anzi solo certi graphic novel. E allora una qualche questione di valore (percepito o presunto) riemerge. Poi, ripeto, è un’interpretazione deliberatamente parziale e forzata, ma rimane una che credo abbiamo messo da parte troppo in fretta forse perché, in fondo in fondo, anche se non ce lo diciamo, ci crediamo ancora.
Quand’è che l’autorialità diventa artificiosa e cosa potrebbero fare autorɜ ed editorɜ per andare oltre?
Ecco, “autorialità” e “artificiosa” sembrano due concetti ossimorici, ma riassumono bene un certo tipo di postura. Non è che abbia una risposta, né sul quando lo diventa né sul come uscirne. Mi sentirei però di dire che c’è un problema di derivatività: tante, troppe cose sono, spesso inconsciamente, derivative sia sul piano editoriale che su quello autoriale che su quello dello sguardo critico e della sua conseguente selezione.
Bisogna invece uscire da quel circolo, dall’approccio assiomatico secondo cui “il buon fumetto è fatto in questo modo”. Perché l’orizzonte di possibilità e di valore è vasto, ma si restringe di botto se ci si poggia solo sulla reiterazione di canoni prestabiliti (e spesso arbitrari). Non ricordo se l’ho scritto nel libro, ma sono convinto che, se gli dai abbastanza tempo, ogni rivoluzione diventa reazione, ogni gesto eversivo diventa canone, si disinnesca da solo e genera quindi una sorta di limitazione di ritorno. Mi verrebbe da dire che l’autorialità diventa artificiosa quando ci troviamo nella seconda fase, quando si è stratificata una nuova norma e magari manco lo sappiamo. Pensiamo di fare qualcosa di nuovo e autentico ma non ci rendiamo conto che stiamo invece riproponendo un modello che ha ben poco di “nostro”.
Se volessi dare delle linee guida a chi ci legge per districarsi nel mare magnum delle pubblicazioni, come definiresti un “fumetto ben fatto” e come emanciparsi da un’idea “monotipica”?
Una metafora che uso spesso nei corsi di formazione che mi capita di fare è che il mercato del fumetto è, per chi lo approccia saltuariamente o per la prima volta, un po’ come la mappa di un videogioco di strategia in tempo reale. Tipo Age of Empires, per capirci (esempio troppo antico?). La mappa è lì ed è enorme, ma c’è una cosa chiamata “fog of war” che ci impedisce di vedere e quindi di orientarci attraverso zone che ancora non abbiamo esplorato. Possiamo però piantare delle bandierine, degli avamposti qua e là che dissipino la nebbia e ci permettano di interpretare quello che hanno intorno. Grandi libri, grandi autrici e autori ci permettono di fare questo: ci danno dei punti di ancoraggio solidi da cui procedere, per affinità o differenze, nell’esplorazione.
Poi però c’è un secondo punto, che è muovere da quei primi punti fissi e spostarsi. Qui arrivo al come uscire dal “more of the same”. Bisogna rimanere curiosɜ, spaziare il più possibile, evitare di farsi tentare sempre e solo da quello che assomiglia a ciò che già conosciamo. È una frase un po’ piaciona ma è in parte vera: capita che i libri migliori siano quelli di cui non sapevamo di avere bisogno. E questa è la vera sfida perché, il buon Lovecraft l’aveva capito bene, il conosciuto è sempre più facile e confortevole di ciò che non si conosce, che invece fa un sacco paura.
La vedo spesso, questa difficoltà, ai festival e alle fiere. Ho fatto diversi banchetti, per add e prima di add, in contesti diversi. E la maggior parte di chi passa davanti a uno stand, doppiamente nel caso di editori piccoli o poco conosciuti, sfoglia appena un paio di libri (magari con una mano sola, senza nemmeno sollevarli dal banchetto) e poi se ne va. Talvolta con una smorfia di arrogante disgusto, quasi sempre senza salutare.
Ho la sensazione, ne parlo molto anche se forse lateralmente nel libro, che tante persone cerchino solo quello che è già noto. Non sono pronte o non vogliono esplorare, scoprire che c’è tanto altro. Che va anche bene eh, ognunə faccia quel che vuole, ma essere lettrici e lettori è un’altra cosa. Dobbiamo trovare il modo di stimolare una curiosità più profonda, di spingere tutto quello che è “altro”. Perché la passione per il fumetto deve diventare passione per il linguaggio, non per una sua particolare declinazione.
Testo visivo e verbale, assonanza e dissonanza, esperienza formale o estetica: se dovessi dare 5 consigli, come suggeriresti di leggere i fumetti? A che dettagli nascosti dovremmo prestare attenzione?
Me ne basta uno, perché i dettagli non sono davvero nascosti, anzi, ma bisogna saperli e volerli vedere. Il consiglio è: rallentare. Scegliere dei buoni fumetti e poi leggerli con calma. La nostra fame di storie, alle volte la nostra smania volumetrica per le librerie stracolme, unita alla natura visiva di questo linguaggio, ci porta spesso ad andare di corsa. E quindi ci ingozziamo di immagini, poggiandoci magari solo sul testo per ricostruire i nessi narrativi, come se stessimo vedendo una serie tv mentre facciamo altro. Accidentalmente, i fumetti che funzionano anche se “letti” così sono spesso il contrario di un buon fumetto proprio perché se non ti sei persə niente nella tua corsa forsennata spesso vuol dire che non c’era niente da perdersi. Invece bisogna rallentare un pochino affinché il vedere diventi guardare e il guardare diventi leggere. Che è un’attività lenta, complessa e soprattutto attiva.
L’aspetto fisico e le declinazioni del libro come oggetto, come e quanto possono influire sulla lettura?
Anche qui non mi dilungo troppo. Sappiamo, in Altri fumetti c’ho dedicato un capitolo, che la componente oggettuale non è secondaria nel fumetto e questo ha a che fare tanto con la qualità della stampa e della cartotecnica, quanto con le diverse possibilità offerte dai diversi formati. Quindi sì, la dimensione oggettuale è centrale.
Ma occhio alla trappola: più grande, più lussuoso, più costoso, più “limitato” e più esclusivo non sono sempre dei punti di forza. Anzi, a essere onesto sono quasi disgustato dall’attuale fotta con cui l’industria sta correndo verso variant, omnibus ed edizioni limitate varie. Ne salvo giusto due o tre, per questioni molto specifiche e non generalizzabili. Le altre si limitano a vendere una menzogna, e se vendono va pure bene: il crepuscolo del capitalismo è comunque capitalismo. Ma di nuovo è una questione di lettura. Se vogliamo che il fumetto non sia solo un’industria ma un’industria culturale, dobbiamo lavorare per riportare al centro del discorso l’idea che i fumetti siano “oggetti da leggere”, non “oggetti da possedere”.
Che rapporto hanno i volumi che hai curato per add editore con la tua ricerca? Hanno funzionato come attivatori? Hanno incarnato le tue teorie o, al contrario, sono state eccezioni?
Ecco, qui comincio a tremare perché ho paura di essere colto in fallo, ma, anche tenendo conto di tutti i compromessi che un editore deve per forza accettare se vuole tirare a campare in un mondo difficile come il nostro, mi sentirei di dire che i libri che abbiamo pubblicato con add vanno a braccetto con quanto scritto sopra. Non so dire se hanno funzionato come attivatori, è ancora presto e comunque non pubblichiamo libri da milioni di copie l’uno, per cui al massimo è più una faccenda tipo “goccia cinese”. Ma sicuramente sono stati scelti secondo quanto detto poc’anzi e per quanto possibile secondo quanto ho scritto nel libro. D’altro canto, il loro primo lettore è anche la persona che li ha scelti, per cui…
Durante la lettura di alcuni volumi della collana mi sono calata nel diverso modo di approcciare le riflessioni sul sé e sulle proprie radici, la messa in scena delle relazioni nella società contemporanea e le sue potenziali derive, la pratica artistica come tramite di conoscenza ed espressione di sé, il valore della resistenza.
Ti andrebbe di parlarcene?
Sono tutte questioni che stanno particolarmente a cuore, sia sul piano personale e privato che su quello culturale e politico e quindi editoriale, tanto a me quanto ad add. Per cui quando abbiamo cominciato a discutere la direzione della collana ci siamo subito trovati d’accordo sul fatto che queste sarebbero state le nostre principali linee d’interesse e di ricerca.
Ho poi avuto la fortuna di poter approcciare la cosa in maniera un po’ Calassiana, nel senso di poter lavorare alla collana come a un meta-testo, un meta-libro i cui capitoli sono i singoli libri che la compongono e che costruiscono un discorso (erratico e oscillante, ma comunque programmatico) che è in parte “il mio” discorso.
Sono molto dentro alla riflessione sull’Antropocene e sull’imminente catastrofe climatica, e sono sensibile alle aberranti derive politiche del nostro mondo e alla moltitudine di battaglie che, quasi sempre dal basso, si combattono per raddrizzare il tiro. Molte di queste si possono rintracciare nei libri che abbiamo pubblicato con add, che possono apparire “all over the place” ma, almeno per me, portano avanti un unico discorso: Carol Hanisch ci ha insegnato che il personale è politico; Mark Fisher che il problema fondamentale del Capitalismo è un problema di immaginario e non di economia, e cioè che il politico è personale; Simon Weil che il potere è interessato solo alla propria conservazione; Ulrich Beck che potere, capitale e crisi climatica sono in una stretta relazione causa effetto; Donna Haraway e Bruno Latour che il cambiamento climatico è, in sé, legato a una dimensione relazionale e quindi personale. Per cui il cerchio si chiude, tutto è collegato anche se non sembra: dalla genealogia del trauma di Mor agli abusi di Tinderella, dalla dimensione privata di Goblin Girl a quella collettiva di Baby Blue, dalla perdita di The End a quella di Grande Oceano fino all’antispecismo brulicante di Disfacimento.
Sempre in riferimento alle tematiche della domanda precedente: secondo te che responsabilità c’è nel pubblicare storie che riescano ad esplorarle in modo così viscerale?
Se intendiamo l’editoria non per forza alla Calasso come “genere letterario” ma comunque con una tensione culturale… una responsabilità cardinale, direi. Certo, bisogna far quadrare i conti, coprire le spese e pagare gli stipendi, ma credo che la prima responsabilità di un editore sia culturale e quindi inevitabilmente politica (parola che intendo nel suo senso alto, non nella sua perversione locale).
Anni fa intervistavo Alessandro Tota che a sua volta mi citava Truffaut dicendo che l’importante era “dire qualcosa sul mondo e sull’arte”. Ecco, credo che la responsabilità sia questa: in primis di “dire”, perché troppo spesso confondiamo i suoni che emettiamo e le scritte che stampiamo con “parlare” anche se non stiamo dicendo niente, non ci andiamo nemmeno vicino; poi di dire qualcosa sul mondo e sull’arte. Aggiungerei anche di dire qualcosa al mondo e all’arte, ma non vorrei allargarmi troppo.
Nelle prossime domande vorrei addentrarmi un po’ di più nei singoli volumi, a partire da un parallelismo con le domande che scuotono i protagonisti e le protagoniste di Arte, perché? e in linea con la pubblicazione del tuo libro: il fumetto perché? Per chi?
È una domanda difficile, anche perché condivido le domande di Eleanor Davis ma non so quanto sono d’accordo con le risposte che suggerisce. Forse perché in fondo sono refrattario a un’idea smaccatamente utilitaristica dell’arte, ma al contempo sono affascinato dai “perché”, cosa che mi genera una spaccatura dentro che mi fa apprezzare più il percorso intellettuale e argomentativo che il punto d’arrivo.
Però posso dire che il fumetto – come tutti gli altri linguaggi, ma in maniera diversa da ogni altro – è un modo di accesso al reale inteso in senso esteso, che comprende la cosa, la sua rappresentazione e interpretazione, e le modalità per passare dalla cosa alla sua interpretazione. Essendo il fumetto una modalità specifica, il suo perché è “perché è un pezzo del reale come sopra inteso”. È come la porta del Castello Errante di Howl: a seconda di come giri la maniglia – nel nostro caso di quale chiave (il linguaggio) usi – finisci in un posto diverso (la rappresentazione e l’interpretazione) anche se la porta (la realtà tangibile dell’esistente) è sempre la stessa. Più chiavi abbiamo, più sono i posti dove possiamo andare. Il fumetto è una di queste chiavi (o meglio, è un mazzo di chiavi ampio a seconda di quanti “tipi” di fumetto leggiamo), e poi ci sono la narrativa, la saggistica, la poesia, il cinema e il cinema d’animazione, il videogioco, la fotografia e la pittura… Ci servono tutte.
Parlando di Tinderella e Desperate Pleasures: quanta solitudine c’è in questa autobiografia in due puntate di M. S. Harkness? A che punto sono le relazioni per come le vediamo raccontate?
Fatico a immaginare una solitudine più grande, perlomeno in senso relazionale. La protagonista cerca disperatamente di uscire da quella solitudine, ma finisce sempre lì. Il finale di Desperate Pleasures è in questo senso particolarmente drammatico ma, credo, in un modo interessante: non c’è la pretesa esplicita di generalizzare o sistematizzare una situazione che rimane fermamente personale, ma al contempo, al di là della manifestazione specifica e dell’esperienza privata della sua autrice, si respira un’aria sistemica e quindi universale sul trauma e sulla solitudine.
Se l’argomento generale è come un iperoggetto, l’esperienza personale è una sua manifestazione locale. E spesso mi pare che nel raccontare le relazioni ci si limiti a stare sul locale o viceversa ad attaccare il leviatano in senso astratto. Non è facile riflettere sull’iperoggetto guardando solo alla sua manifestazione locale. Ecco, mi pare che Harkness faccia, o provi a fare, proprio questo. Sicuramente è il motivo per cui ho amato questi due libri.
Come cambia il punto di vista se si guarda lo stesso argomento attraverso le pagine di Goblin Girl di Moa Romanova?
Per me la differenza principale (spoiler incoming) nel libro di Romanova, è che finisce bene. E qui torno a quanto dicevo sopra, alla necessità di dire qualcosa sul e al mondo. In questo libro ho sentito e condiviso la volontà e le necessità di dirsi e ribadire che sì, è tanto difficile e tanto doloroso, che siamo piccolɜ ingranaggi rottɜ di un sistema che nella migliore delle ipotesi non è interessato al nostro stare e nella peggiore è proprio fatto per romperci, ma che si può fare. Che non deve per forza finire a schifio. Credo che siamo arrivati a un punto talmente basso, che stiamo così vicinɜ a un baratro così profondo, che ci vuole del coraggio per suggerire che la catastrofe – privata, personale, collettiva o di specie – non è l’unico risultato possibile. Nichilismo e autocommiserazione sono spesso strade più facili e, a modo loro, rassicuranti.
Io sono una, di Una, fa un grande punto sulle molestie sessuali.
Come si può fare la differenza su un dibattito così grande, e come si può arrivare anche a chi non è già sensibile e consapevole che c’è della strada da fare?
In primo luogo, è doveroso ricordare che Io sono Una precede il mio arrivo in add, per cui per quanto ne sposi in pieno valore e messaggio, soprattutto politico, non mi prendo dei meriti che non sono miei né mi permetto di estendere le mie motivazioni a decisioni che sono state di altrɜ.
Detto questo, tocchi un tasto centrale e dolorosissimo. Il nichilismo di cui sopra è sempre allettante, non sono immune al suo fascino, e se mi becchi nel giorno sbagliato mi troverai sicuramente a dire “non si può fare la differenza”: il massimo che potrai fare sarà fare un libro che verrà letto solo da persone che sono già dalla parte giusta della Storia, persone che hanno già capito e sono d’accordo e non hanno bisogno di convincimento. Le altre perché mai dovrebbero comprare, figurarsi leggere, un libro così? È un po’ il cruccio di chi fa questo lavoro.
Nei giorni giusti, però, mi ricordo che il mondo non cambia dopo un singolo colpo ben assestato. E che, nel caso di Io sono Una e della violenza di genere, il mondo (e mi riferisco qui al mondo maschile o più in generale di chi abusa) non si divide tra carnefici irrecuperabili e persone illuminate in odore di beatificazione. È uno spettro con tante gradazioni di grigio in mezzo (spesso grigio scuro, ahimè) che tiene in vita un problema stratificato e sistemico. Per cui il nostro è e deve essere un lavoro paziente, che parte dai margini per arrivare al centro.
Da un lato si tratta quindi di mantenere vivo il discorso e di difendere la posizione finché non si può avanzare un altro pochino; dall’altro si tratta di farlo arrivare, questo discorso, un po’ più in là fin dove si può. Limitarsi a stampare un libro come questo e farlo circolare solo negli ambienti già convinti, per dirsi bravɜ a vicenda, non basta: ai tempi di Io sono Una add lavorò molto e molto bene con le scuole, per esempio, e lo portò in contesti di certo non ostili ma non per forza “già convertiti”. Ci vuole della pazienza, perché è un percorso lento, lentissimo, lentissimissimo, e con quasi nessuna soddisfazione immediata, ma è importante.
Sullo stile degli autori e delle autrici che avete pubblicato: mi sembra che ci sia una grande maturità, e che chi scrive e disegna abbia il coraggio di mixare i linguaggi e di imporre un tipo di disegno o mix media molto personale. Quanto ha inciso (il loro stile) sulla scelta di pubblicazione?
Ha inciso molto, anzi mi sentirei di dire che è stata un po’ una linea guida, un fattore determinante. Mi ritrovo a pensare, e spero che un po’ si senta anche nel mio libro, che molto spesso (quasi sempre) non è tanto la storia che racconti ma è più come la racconti. Poi è ovvio che devi avere anche qualcosa di interessante da dire. Ma avere qualcosa di interessante da dire non basta, in parte perché abbiamo già detto, visto e letto tanto, forse tutto. È il modo che hai di raccontare, di stare dentro la grammatica del linguaggio che hai scelto, di usare quella grammatica per far emergere una forma specifica, di comprendere le finezze del mezzo che veicola quella grammatica a fare la differenza.
È probabile che questo sia un mio pallino, che ho maturato nel corso del tempo e che si è costruito attraverso le diverse esperienze che ho avuto in questo mondo, che non sono state esperienze neutre. Ma in generale questo è quello che cerco dalle narrazioni e che ho cercato nei libri che abbiamo poi pubblicato.
In The End mi è capitato di sentirmi così dentro alla storia da non percepire come estremo il cambiamento di stile che eppure avviene.
Si entra in un mondo di sintesi, si passa dalla narrativa all’illustrazione, a un certo punto arriva il collage, sembra di essere nel diario del protagonista e tutto serve la narrazione dei tragici fatti narrati. La gabbia vuota alla fine, il ritmo del silenzio che lascia con il fiato sospeso. Come è avvenuto l’incontro con questa pubblicazione?
Sono abbastanza convinto che se Nilsen non è l’autore più importante del fumetto contemporaneo ci si avvicina molto. È uno dei pochi nomi che rimarranno, di cui ci ricorderemo al pari dei grandi della letteratura (anche a fumetti). E lo è per tutti i motivi di cui sopra: ha tante cose interessanti, mi spingerei a dire importanti, da dire e una competenza linguistica, una sensibilità stilistica, una poetica impressionanti.
Il primo libro suo che ho letto è stato Big Questions (un fondamentale da cui emergono con forza tutte le sue qualità autoriali) ed è stata una lettura fondativa. Una di quelle che, per me, ha segnato un prima e un dopo. Ai tempi, ero allibito che nessuno si stesse muovendo per portarlo in Italia, cosa che è poi cambiata nel 2021 grazie a Eris Edizioni.
Comunque. Dopo Big Questions cominciai a recuperare le altre sue pubblicazioni, scavando fino ai due taccuini Monologues for the upcoming plague e Monologues for calculating the mass of black holes che erano delle rarità già allora (e che sarebbero un bel fun project da riesumare e tradurre!). Comprai e lessi The End nel 2018, nella sua prima edizione poi rielaborata ed espansa, durante un soggiorno negli Stati Uniti, in una bella fumetteria di Baltimora che mi era stata segnalata da Conor Stechschulte. Me ne innamorai subito e tutt’ora non so dire quale penso sia il suo libro più importante: se Big Questions o The End. Forse entrambi, per motivi diversi, ma in ugual misura?
A margine: abbiamo infine pubblicato The End nel 2023, “approfittando” della sua riedizione estesa. Questo per dire quanto lavorare con l’editoria, almeno nel mio caso, sia spesso un lavoro di pazienza e di attesa delle giuste condizioni. Un trait d’union che ritrovo in più di un titolo della collana e che forse dice qualcosa della mia ossessività per alcuni libri.
Mor allarga il campo visivo: la storia della protagonista arriva solo a un certo punto, dopo quella delle sue madri, tanto che la chiama una storia “per” le sue madri. C’è molto dolore e al contempo affetto per chi l’ha preceduta, per una linea materna così piena di sentimenti contrastanti. In questo caso il tema della costruzione dell’identità parte da chi ci ha precedutɜ. Com’è stato lavorare a questo volume con Sara Garagnani?
Mor è, come giustamente sottolinei, un testo corposo, frutto di un lunghissimo percorso personale. Parla di tante cose e di tante persone, con tutta una serie di ramificazioni sull’ereditarietà del trauma, sulla definizione dell’identità, sui percorsi possibili di superamento del dolore che però non implicano la cancellazione di quel dolore. Il focus è fortemente centrato sulla linea materna in un modo più complesso e sottile rispetto allo stereotipo della “mamma-chioccia” o al suo ribaltamento con la “mamma-mostro”.
Lavorare al libro è stato, tuttavia, forse sorprendentemente facile. Facile nel senso che il testo ci è stato proposto da Sara Garagnani sostanzialmente nella versione che è stata poi pubblicata. Abbiamo limato delle cose, aggiustato qua e là il tiro per evitare (a noi e all’autrice) delle problematiche anche di carattere legale. Ma non ho e non abbiamo sentito il bisogno di agire più a fondo di così: alcuni testi sono talmente frutto del percorso personale che li ha generati che quel percorso diventa parte del libro. Credo che questo lato di Mor si sentisse bene, nei modi e nelle forme giuste, fin da subito.
Cosa condividiamo al momento con la società distopica di Baby Blue?
Come tutte le buone storie distopiche, Baby Blue prende un elemento della nostra realtà e lo spinge via via un po’ più in là finché non si arriva a un estremo. Poi però quell’elemento non vive nel vuoto, ma è parte integrante di (e integrata a) tutta una serie di problemi strutturali più ampia.
Nello specifico, il libro nasce da un problema reale: in Svezia sempre più persone sono schiacciate dal sistema economico e produttivo che abbiamo costruito e in cui viviamo. E quindi crollano. È una cosa reale che sta succedendo per davvero. Allora la domanda è: cosa succede se, di fronte a questa faccenda reale, mettiamo in discussione la legittimità dello stare dei singoli invece che discutere e riflettere sulle storture strutturali che hanno generato il loro malessere? E ancora: che succede se il malessere diventa una devianza da colpevolizzare? Succede che si instaura una sorta di dittatura per cui il sistema va protetto a tutti i costi, e la normatività imposta è lo strumento per difendere il sistema.
A corollario di questa deriva il libro si e ci interroga, più in generale, sul nostro approccio alla “salute mentale”, sulla nostra tensione a una cosa che chiamiamo “normalità” il cui effetto primario è quello di allontanare tutte le persone che in quella “normalità” arbitraria non rientrano.
Purtroppo è una distorsione che, per tornare alla domanda, vedo molto presente e sempre più presente nel discorso pubblico e politico attuale. La “diversità” ci spaventa e non va capita e abbracciata ma combattuta e curata. È una linea di pensiero aberrante ma che, temo, riassume abbastanza bene i tempi aberranti in cui viviamo. È uno dei tanti pezzetti storti del nostro oggi.
Qui l’intervista completa.