Io, migrante deportato. È l’Australia il modello che l’Ue sta copiando: l’intervista a Behrouz Boochani
L’intervista a Behrouz Boochani a cura di Marika Ikonomu su Domani.
Qual è il ruolo della scrittura? Una forma di resistenza per i detenuti o uno strumento di potere per le istituzioni?
La scrittura ha una funzione creativa, e in quelle condizioni la creatività significa recuperare la propria dignità, significa sopravvivere, ricordare a sé stessi la propria identità. La creatività è importante, perché il sistema è progettato per disumanizzare. Poi c’è la scrittura che sfida il linguaggio o la narrativa sui rifugiati. Ho cercato di avere anche questo approccio, perché i media spesso adottavano il linguaggio imposto dal governo. Ho provato a mettere in discussione il linguaggio ufficiale. Per esempio, la struttura la chiamano “Manus Processing Centre” (Centro di elaborazione di Manus, ndr), ma in realtà è una prigione. È un linguaggio che da un lato pratica la violenza, dall’altro la nasconde. Quindi per me la scrittura non è solo un atto di resistenza, ma è profondamente politica, volta a smascherare quel sistema di tortura.
In che modo il sistema toglie la dignità ai richiedenti asilo? In diversi modi. Il fatto stesso di essere rifugiato porta con sé un immaginario e una lunga storia di disumanizzazione. E lo sei nel momento in cui attraversi un confine. All’interno del sistema la disumanizzazione era quotidiana. Ci chiamavano per numero e non per nome. Il sistema delle code, una sorta di processo di meccanizzazione dei corpi, uno strumento di annichilimento: dovevamo fare lunghe code per avere il cibo, ottenere beni di prima necessità, ricevere cure mediche. È come andare tutti i giorni per sei anni all’aeroporto, un sistema simile, di burocrazia e controllo. Essere banditi dalla società era una forma di violenza profonda. Probabilmente il motivo principale era umiliarci come esseri umani, per costringerci a tornare nei nostri paesi d’origine. Penso non si possa prescindere dalla storia coloniale dell’Australia: la prima risposta a un problema è esiliare, esercitare violenza. Un linguaggio che conoscono.
Cosa pensa dei paesi europei e dell’Occidente quando mostrano solidarietà agli oppositori del regime, iraniani o curdi, e nel frattempo trattano i rifugiati curdi, ad esempio, come corpi da detenere?
Credo sia importante, dal mio punto di vista di curdo, non associare il colonialismo solo ai paesi occidentali. Perché come curdo non sono stato colonizzato dall’Occidente, ma da sistemi di colonizzazione nella mia stessa regione. Parlando invece del doppio standard in Occidente, sul discorso dei diritti umani, credo che la radice principale sia il razzismo. L’esperienza di un rifugiato varia moltissimo in base al colore della pelle.
Il governo Meloni ha aumentato il termine di detenzione nei Cpr fino a 18 mesi. Mentre in Australia non c’è un limite.
La detenzione a tempo indeterminato in Australia è il cuore del sistema. È il nucleo della tortura sistematica. Il governo difende strenuamente questo principio, anche in tribunale, contro le pressioni di politici e organizzazioni per i diritti umani che chiedono un termine per la detenzione. Il tempo è un’arma di tortura. È diverso quando sai di dover scontare ima pena definita, rispetto a pensare ogni giorno che potresti essere liberato domani, oppure tra dieci anni. È una tortura psicologica profonda, ogni giorno diventa insopportabile. E chiedi: «Qual è il mio crimine?». È una ferita enorme perché non rispondono. Tutto è indefinito.
Esternalizzare le frontiere significa allontanare dallo sguardo ciò che accade ai confini?
Il sistema è costaiito sulla segretezza. Ai giornalisti e alle organizzazioni viene reso molto difficile l’accesso, i centri sono in luoghi remoti, fuori dalla vista della società civile. In Australia giustificavano questa segretezza parlando di “sicurezza nazionale”. Dicevano esplicitamente che la segretezza era parte della politica. E questo, a lungo andare, ha avuto un impatto sulla cultura politica del paese: se il governo può giustificare la segretezza con i rifugiati, allora può applicarla anche con altre persone.
Qui l’intervista completa.
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