La finanza padrona del calcio e quella nostalgia retorica del pallone di una volta: l’intervista a Luca Pisapia
L’intervista a Luca Pisapia a cura di Luca Rondi per la rivista Altreconomia.
Pisapia, come nasce questo libro?
Ogni capitolo si apre con un’immagine di una persona che lavora: che siano i marinai che costruiscono una nave o un calciatore che si allena per la partita successiva. A mano a mano però che si procede nella lettura del libro questa forza lavoro diventa sempre più immateriale, ed è un passaggio fondamentale che si registra tanto nell’industria quanto nel mondo del pallone. Ho deciso che era importante scrivere un saggio per raccontare questa dinamica e ricostruire come il calcio fin dalla sua nascita sia una merce, un prodotto del capitale e risponde alle sue leggi ed è andato di pari passo con l’evoluzione delle modalità di produzione. Anzi, in alcuni casi le ha anticipate.
Che cosa hanno in comune Giuseppe Meazza e David Beckham?
Cerco di raccontarli come sovrapponibili, intercambiabili, perché entrambi rappresentano la stessa cosa con due funzioni molto simili. Siamo in piena rivoluzione industriale quando Giuseppe Meazza dà il via all’apparizione dell’eroe nella narrazione calcistica che nei fatti segna l’ingresso vero e proprio del pallone nell’industria culturale. “L’uomo simbolo” con le sue cadute e le sue rivincite serve a tenere “attaccati” allo schermo gli appassionati distratti. Meazza, fortissimo in campo, diventa più famoso per quello che fa fuori dal campo: le pubblicità, il regime fascista che lo usa come emblema, la leggenda sui pantaloncini tenuti su durante il calcio di rigore nella semifinale dei Mondiali del 1933, le relazioni extraconiugali. Tutto ciò che serve, come nelle serie tv, per creare attenzione intorno al personaggio e quindi a produrre indotto. All’inizio è un caso isolato, poi molti calpesteranno quelle stesse orme. E Beckham lo fa perfettamente perché anche lui è più famoso per quello che fa fuori dal campo. E si è creata una sorta di isteria collettiva sulla sua vita. Il calciatore inglese ha quindi la stessa funzione di Meazza: la forma è diversa, la sostanza no.
Dedichi un capitolo al general intellect di Marx nel calcio. Chi è la sua massima espressione?
La massima espressione del cosiddetto “calcio totale” è Johan Cruijff. Si vuol far credere che quel movimento sia nato dal nulla in Olanda negli anni Settanta e incarni l’idea di un calcio cooperativo, ma non è così. Quella stessa idea di gioco era già stata sperimentata in Ungheria vent’anni prima e anche il Liverpool, seppure con altre modalità, lo stava già provando. Ma anche in questo caso, il motivo di questa mitizzazione è dovuto a quello che stava succedendo nei Paesi Bassi negli anni in cui si è sviluppato. All’epoca quella olandese è una società chiusa e conservatrice nella sua etica protestante, incarnata nello spirito capitalista che però gli stava sempre più stretto. E serviva dunque un cambiamento a più livelli: da quello architettonico a quello artistico passando per il mondo letterario. L’Ajax, il Feyenoord e poi la nazionale mettono in scena questo rinnovato movimento sociale che rappresenta la nascita dell’aristocrazia operaia e che si fonda sul principio dell’intercambiabilità: un operaio che sa coprire diversi ruoli può spostarsi in diversi settori ed essere imprenditore di se stesso. Così avviene anche nel calcio e Cruijff è il profeta perfetto. Pensiamo a quando gioca con lo scotch appiccicato sulla maglietta perché il suosponsor era in contrasto con quello della nazionale. Questo viene raccontato come momento di rottura quando in realtà non è così. Nel momento in cui a ciascuno viene data la libertà d’impresa nasce una condizione di precarietà totale, così come l’inizio della fine dello Stato sociale, dalla sanità alla scuola. Restano le partite Iva che cercano disperatamente di sopravvivere.
Il calcio totale però per molti rappresenta anche un’idea cooperativista e socialista del pallone. Non è mai stato così?
Il calcio può piegarsi e sponsorizzare la lettura che più torna comoda in un determinato momento: questo calcio totale può essere proposto con una visione socialista, quella del Liverpool -tutti portuali e minatori e la solidarietà di classe in un gioco collettivo- ma anche come capitalismo di Stato -la fabbrica del calcio totale della Dinamo Kiev dove Valerij Lobanovs’kyj è un ingegnere che porta l’informatica nel pallone- che poi crollerà. Oppure può essere reazionaria e in chiave post-moderna con Arrigo Sacchi che punta tutto sul copiare il sistema del calcio olandese: utilizza il sistema delle “repliche” come il suo presidente Silvio Berlusconi ha fatto nei suoi programmi televisivi. In altri termini: il calcio totale difficilmente è un elemento reale di rottura ma viene usato per traghettare un preciso modello.
A inizio maggio 2005 la miliardaria famiglia Glazer rastrella il 98% delle azioni del Manchester United con una discussa operazione. Perché quella data è un punto di non ritorno?
In quel caso il cambiamento del calcio va di pari passo con quello finanziario, ovvero nasce un’economia slegata dalla produzione materiale e che si può fondare solo ed esclusivamente sul nulla, sul vuoto, sul debito che poi viene “riempito” con altro debito. Nel 2005 esplode la prima crisi del debito che è quella immobiliare negli Stati Uniti e anche il mondo del pallone, con il caso del Manchester, si scollega dalla “produzione”: i fondi di private equity non quotati in Borsa e con molta libertà d’azione hanno lo scopo di raccogliere soldi da altri fondi e creare una nuova entità per fare determinate operazioni e poi restituire i dividendi agli azionisti. Il calcio del futuro, di cui molte tracce sono già ben visibili nel presente, è questo: fondi di investimento che si compreranno l’un l’altro le squadre per fare profitto.
Qui l’intervista completa su Altreconomia.
Vai al libro: https://www.addeditore.it/catalogo/luca-pisapia-fare-gol-non-serve-a-niente/