20 dicembre 2016

La palestra di fumetto di Tito Faraci

– di Enea Brigatti –

Da qualche anno, oltre alla solita attività di autore per Topolino, svolgo quelle di scouting e di tutor per nuovi autori. Ho scritto “nuovi”, non “giovani”, perché – sep­pure siano tutti baldi giovanotti – alcuni avevano già carriere avviate nel mondo del fumetto o, più in gene­rale, della scrittura, prima di entrare nella mia “palestra”, come la chiamano in redazione.
Lo scouting, l’avrete capito, consiste nell’individuare potenziali autori per Topolino.
A volte mi aiuta la reda­zione, passandomi candidature promettenti.
Altre volte, e sono i casi di cui sono più orgoglioso, faccio da me.
Tengo gli occhi aperti. Gli occhi e le orecchie. Bisogna averle grandi come quelle di Topolino.

Così scrive Tito Faraci in Mickey, quarto volume della collana Incendi in cui racconta la sua passione per Topolino, il personaggio più famoso di tutta la galassia Disney.
Celebrità che Faraci ha contribuito a tenere viva diventando dalla metà degli anni Novanta uno degli sceneggiatori delle sue avventure, rinnovandone l’immaginario e dimostrando che non è quel personaggio ineccepibile che tutti pensavamo fosse.

Ma chi sono questi nuovi autori cui fa riferimento Tito nel suo libro? Fra i tanti e talentuosi collaboratori della redazione di Topolino abbiamo scelto tre giovani che dei libri hanno fatto un mestiere, scrivendoli e scrivendone.

Jacopo Cirillo, Giulio D’Antona e Giorgio Fontana sono tre voci note all’interno del panorama letterario italiano (e non solo): il primo ha fondato il sito di letteratura Finzioni e firmato articoli per Linkiesta, Inutile e Rivista Studio (sta lavorando anche a un nuovo volume di Incendi per add, ma questa è un’altra storia. Ancora segreta); il secondo ha scritto come critico letterario per minima&moralia, Blow Up e L’Ultimo Uomo, di recente ha pubblicato Non è un mestiere per scrittori (minimum fax, 2016), reportage narrativo che racconta il mercato editoriale statunitense e attualmente collabora con Pagina99, L’Espresso e IL; il terzo, oltre a collaborare con Pagina99, Tuttolibri e A. Rivista Anarchica, ha vinto il Premio Campiello per Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014) e con Un solo paradiso (Sellerio, 2016) è arrivato al suo quinto romanzo. Insegna scrittura alla NABA e alla Scuola Holden.

Con loro abbiamo voluto ribaltare il meccanismo di Mickey: al centro non c’è più Topolino ma Faraci stesso.
Gli abbiamo chiesto quindi di raccontarci il proprio Tito: come si sono conosciuti, che tipo è, in redazione come fuori, cosa rappresenta per loro professionalmente e umanamente.

Le riposte sono arrivate subito, parole che tracciano i contorni di un rapporto con Tito fatto di ammirazione e ascolto, amicizia e rispetto.

Jacopo Cirillo

Jacopo Cirillo

 La prima volta che ho conosciuto Tito Faraci lo conoscevo già. Leggevo Topolino fin da bambino e, negli ultimi anni, seguivo soprattutto le sue storie, con Gambadilegno che era come mi ero sempre immaginato dovesse essere e Manetta e Rock Sassi che mi facevano ridere, ma anche pensare.
Complici alcuni amici in comune, una sera durante una cena in pizzeria seduto al mio stesso tavolo c’era anche Tito.
Mi avvicinai, dopo qualche bicchiere di vino, e gli dissi: «Oh, ma tu sei quello che ha inventato Rock Sassi!», e lui: «Sì, sono io». E poi basta.
Passò una settimana e ci rivedemmo, sempre per caso. Ricordo che esordii con qualcosa tipo: «Comunque il tuo Topolino è meglio di tutti gli altri», e lui: «Già».
E poi basta, di nuovo. Il nostro rapporto arrancava, zavorrato dalla banalità delle mie osservazioni e dai conseguenti monosillabi delle sue risposte.
Poi, come in tutte le amicizie che si rispettino, l’alcol risolse tutto. Durante una festa casalinga, stazionammo entrambi per qualche ora davanti al banchetto del vino e della birra, pressati dall’eccessiva densità di popolazione attorno. Un bicchiere tira l’altro e, a fine serata, Tito Faraci era diventato semplicemente Tito, un amico che, di lavoro, fa fumetti.
Qualche anno dopo, Tito diventò un amico che mi insegnava a fare fumetti. Avevo appena iniziato a sceneggiare storie per Topolino e da lui ho imparato tutto. Mi ha aiutato a comporre il primo soggetto da proporre in redazione – scartato, ma per colpa mia.
Mi ha aiutato anche con il secondo e il terzo, con la prima sceneggiatura, e poi è diventato il mio editor.
La cosa migliore di Tito è che non ti insegna tanto cosa o come fare, piuttosto ti spiega il perché. Con lui non ti appunti una scaletta di regole e dettami, non c’è niente da imparare a memoria, al contrario da lui capisci il funzionamento autentico, l’amore e il rispetto verso questi personaggi, e la responsabilità del farli muovere e di dargli vita. Ti svela la struttura profonda, lasciandoti l’agio di decidere quella superficiale.
Mi ricordo di un pomeriggio uggioso, ero in casa, dovevo concludere una storia ma ero bloccato. Avevo la situazione iniziale, qualche idea successiva e poco altro. Allora chiamai Tito, lamentandomi della situazione, e lui mi disse solo: non pensarci troppo, lascia che siano i personaggi a decidere cosa fare. Osservali, assecondali, vedrai che si mette tutto a posto. E i personaggi, magicamente, presero vita propria e finirono la storia al posto mio.
Così, e solo così, almeno secondo me, si insegnano le cose. E anche questo me l’ha insegnato Tito.

Giulio D’Antona

Giulio D’Antona, foto © Stefania Zamparelli

 «Sapevo chi fosse Faraci prima di sapere chi fosse Madonna», è una delle prime cose che io abbia mai detto a Tito — vai a capire perché, poi, visto che ancora adesso che lavoriamo assieme, ci vediamo continuamente e avrebbe cose molto più imbarazzanti da dire di me, ogni tanto mi presenta a qualcuno tirando ancora fuori la storia di Madonna.
L’ho conosciuto perché volevo conoscerlo, come spesso capita con i miti.
Lui non se ne ricorda, ma a presentarci è stato un’altra persona che per me ha avuto un’importanza vitale: Matteo B. Bianchi. Avevo scoperto che lui e Tito si conoscevano e lo avevo, quasi letteralmente, supplicato di presentarmelo. Lo ha fatto in un’occasione pubblica, quando — ma questo lo avrei saputo solo molto più tardi — Tito è notoriamente travolto da decine di distrazioni diverse. Però ha trovato il tempo di stringermi la mano e di dare disposizione, non so esattamente a chi ma agitava il dito verso la folla, di metterci in contatto. «Date al ragazzo i miei numeri», ha detto. Proprio così, il ragazzo e i miei numeri. Ho ottenuto un numero di telefono e un indirizzo di posta elettronica a cui ho scritto una lunghissima email piena di sentimento, sul mio rapporto con Topolino e il mio sogno di scrivere storie, che a tutt’oggi non ha avuto risposta.
Sono passati due anni, più o meno e ci siamo rincontrati. Questa volta per lavorare a un progetto radiofonico. Abbiamo scoperto di avere in comune il lago Maggiore e cominciato a vederci nella sua casa di campagna.
Una sera, complici un paio di birre e la sensazione di aver preso confidenza, gli ho detto dell’email e dei miei propositi. Non ha battuto ciglio: «Mi ricordo perfettamente, eri tu!».
Poi ci ha pensato e mi ha chiesto di mandargli qualche soggetto.
Gliene ho mandati due, scartati entrambi, di nuovo in rigoroso silenzio imbarazzato.
Stavo per smettere di tentare quando, un pomeriggio, sempre sul lago, mi ha chiesto: «Cosa hai fatto oggi?». Era primavera appena iniziata, per cui avevo pulito la griglia. «Ecco, fai una bella storia con Paperino e Anacleto che litigano per una questione di grigliate», poi ha aggiunto quello che sarebbe diventato uno dei suoi classici più ansiogeni, per me: «Ma che sia bella, mi raccomando».
Qualche mese dopo, mentre attraversavo una via molto trafficata di Roma, mi è suonato il cellulare. «Benvenuto in Topolino», diceva un messaggio. Ho provato a chiamarlo per ringraziarlo, mettendo a repentaglio la mia incolumità perché avevo smesso di guardare le macchine, ma non mi ha risposto. Lo avrei ringraziato meglio qualche anno dopo, con un’altra lunga email, ancora ignorata, per avermi dato la straordinaria opportunità di lavorare alle dirette dipendenze del Topo e di arrivare a pochi gradi di separazione da Mickey in persona.
Dopo aver imparato il suo nome prima di quello di Madonna, ho avuto la fortuna di poter chiamare Tito in molti modi: collega, maestro, editor, ragione per cui mi capita di svegliarmi con l’ansia nel cuore della notte. Ma soprattutto ho avuto il privilegio di poterlo chiamare, cioè telefonargli, ogni volta che ho avuto un dubbio, ogni volta che me la sono sentita, ogni volta che avevo voglia di sentire come stava.
Questa, considerato il numero di email che giacciono inascoltate nel pozzo nero della sua cartella dello “spam”, è una possibilità che è data a pochi.
Questo è il motivo per cui, se mi si chiede di definirlo, io non ho dubbi: è prima di tutto e per sempre, un amico tra i più cari.

Giorgio Fontana

Giorgio Fontana, foto © Argirò&Demontis

Qualche anno fa, chiacchierando con Tito – l’avevo conosciuto per via di altri lavori – saltò fuori che ero un grande appassionato di Topolino (ho imparato a leggere sugli albi Disney, e ho continuato a farlo per il resto della mia vita: il disneyano affezionato lo riconosci subito, è qualcosa che si inscrive nel codice genetico).
Qualche tempo dopo, Tito mi buttò lì se volevo provare a scrivere qualcosa per il Topo.
Non potevo crederci: era uno dei miei sogni di sempre.
Però ho sempre diffidato degli scrittori che si improvvisano qualcos’altro – registi, cantanti, fumettisti, qualsiasi cosa – senza prima studiare. Così presi tempo per imparare a sceneggiare e fare qualche prova; non mi sentivo ancora pronto.
Nel frattempo la vita fece il suo corso: uscì il mio romanzo Morte di un uomo felice, vinsi il Campiello, divenne tutto più complicato, cominciai a fare moltissime presentazioni – insomma, mi persi un po’.
Al Salone del libro di Torino 2015 la prima persona che rividi fu proprio Tito. Mi prese da parte e mi chiese con garbo, ma anche con fermezza: «Allora, Topolino?» «Adesso sì», risposi.Da allora cominciò un nuovo rapporto di lavoro (e amicizia) di cui vado molto fiero.
Tito come editor è curioso, aperto e gentile; ma anche e giustamente attento e severo. Dai suoi autori pretende molto, e questo è di stimolo per guardare sempre avanti e sperimentare ogni volta qualcosa di nuovo. Se una cosa non gli piace te lo dice, e avanti con la prossima; se gli piace, si fa in quattro per portarla avanti.
Mezz’ora di lavoro sulla sceneggiatura con lui vale più di cento manuali.
E poi, cosa che si vede benissimo leggendo il suo Mickey, è animato da un sincero amore per i personaggi Disney e una conoscenza perfetta di ogni loro dettaglio. Parlare di quel mondo con lui è un vero piacere. Se poi lo si fa davanti a un bicchiere, è un piacere ancora maggiore.

 

Tito Fraci durante la presentazione di “Mickey” alla Libreria Bodoni di Torino.

 

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