13 giugno 2024

La tecnologia è positiva solo se si inserisce in una società giusta: l’intervista a Claire Horn

L’intervista a Claire Horn a cura di Elisa Teneggi su Rolling Stone.

Il tuo libro è bello, necessario e anche, in alcuni passi, commuovente. L’uscita in lingua originale è avvenuta più di un anno fa: durante questo tempo hai visto alcun tipo di cambiamento nel modo in cui vengono discussi i diritti delle donne, tra cui l’ect0genesi?
Innanzitutto, grazie! Sono tanti anni ormai che mi occupo del tema degli uteri artificiali, si parla del 2016, quando ho cominciato il mio Dottorato di ricerca. In quel periodo, il discorso su questo tipo di tecnologia era quasi del tutto dominato da bioeticisti di stampo conservatore. Negli ultimi anni invece l’argomento è stato sempre più trattato anche da ricercatrici e ricercatori provenienti dal femminismo intersezionale, è stato bello poter vedere questo passaggio, ha ispirato anche la mia, di ricerca.

Leggendo Eva si arriva ad avere l’impressione che molti dei problemi che presenti siano originati da un tema-ombrello più grande: il fatto che non siamo capaci di porci la giusta domanda al momento giusto. Dunque, che cos’è che dovremmo chiederci tutti, ora?
Concordo. Uno dei motivi per cui ho scritto il libro è che, spesso, il progresso scientifico si muove in avanti più velocemente della nostra conversazione culturale. Il punto che voglio sottolineare è che la tecnologia, ogni tecnologia, può essere avanzata solo nella misura in cui anche la società che la accoglie lo è. Perciò, ti dico che la domanda giusta oggi sarebbe: basandoci sulla realtà che vediamo nel mondo attorno a noi, quale possiamo supporre sarà l’impatto degli uteri artificiali?

Da qui nascono domande secondarie, tipo: abbiamo paura degli uteri artificiali? E ancora: siamo a un punto, nella nostra società, in cui potremmo essere in grado di affrontare le conseguenze di questa domanda?
È una domanda fondamentale. In Eva affronto due lati della questione. Il primo riguarda le ricerche che si stanno portando avanti in tutto il mondo, e che hanno lo scopo di permettere alle donne di condurre una gravidanza all’esterno del proprio corpo. Un esempio di queste ricerche sono quelle che stanno avvenendo in neonatologia e che hanno per oggetto la creazione di uteri parzialmente artificiali, ovvero, macchinari che saprebbero fornire supporto vitale a neonati nati estremamente prematuri. Non sono una scienziata e non parlo a nome dei team coinvolti in queste ricerche, ma c’è una cosa che rende questi macchinari più simili a uteri artificiali che a incubatori: il fatto che siano progettati per trattare le complicazioni di una nascita prematura, quando gli organi di un neonato non sono ancora sufficientemente sviluppati per sopravvivere nel mondo esterno al corpo della madre. Come funzionano? Replicando le condizioni di vita presenti nell’utero e cercando in questo modo di evitare che possano insorgere problemi. Questo avviene immergendo il bambino all’interno di un fluido amniotico artificiale, così che possa continuare a crescere come se “non fosse ancora nato”.

Ci sono già state sperimentazioni promettenti su diversi animali, e un gruppo in particolare ha annunciato di voler passare ai test clini e pre-clinici sugli esseri umani nei prossimi anni. Nel settembre del 2023, la FDA [l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ndr] ha autorizzato un gruppo di ricerca clinico a definire ciò che sarebbe necessario per passare ai primi test sugli esseri umani.

Poi c’è il tema delle diverse tecnologie tutt’ora in sviluppo: quali sono i problemi che vengono a crearsi attorno al consenso informato e ai processi decisionali dei singoli durante questi test, dato che la partecipante non può essere altro che una donna incinta? In che modo queste stesse tecnologie potrebbero essere impugnate dagli anti-abortisti per cercare di restringere i diritti riproduttivi? Dobbiamo ricordarci che sono i paesi più poveri a mostrare sia i tassi più alti di nascite pre-termine che i fallimenti più grandi quando si tratta di portare a compimento quelle nascite. Nei paesi più ricchi come per esempio il Canada, invece, le donne nere e native hanno maggiore probabilità rispetto alle donne bianche di avere gravidanze pre-termine. Queste disparità sono causate da una serie di problemi, come la distribuzione diseguale delle risorse e il razzismo strutturale. Che cosa succederebbe quindi introducendo una nuova tecnologia ad alto costo? Chi vi avrebbe accesso?

Il secondo aspetto che tratto nel libro è più speculativo, e riguarda la possibilità di arrivare ad avere l’ectogenesi completa: con questo mi riferisco al far crescere un bambino completamente al di fuori del corpo di una madre biologica, impiantando l’embrione in un utero artificiale. Inquadro la situazione presentando gli ostacoli scientifici, etici e legislativi che influenzeranno lo sviluppo di queste tecnologie. Non solo però: penso che discutere un possibile futuro in cui l’ectogenesi sarà realtà ci dà l’opportunità di capire meglio le posizione che abbiamo oggi nei confronti della gravidanza, del mettere al mondo un essere umano, del diventare genitore. Alla fine, Eva è un libro che parla del futuro che incontreremo, e verso il quale procediamo da un contesto di spiccata ingiustizia. Quali sono allora le precondizioni per arrivare a un mondo migliore, a un futuro in cui l’ectogenesi potrà davvero essere una risorsa positiva per tutte le persone in gravidanza?

Mentre scrivevi Eva eri tu, però, a essere incinta.
È stata un’esperienza davvero interessante. Stavo studiando l’argomento da davvero tanto tempo, poi ci sono stati ritardi nella scrittura a causa del Covid, è stata una strana coincidenza ritrovarmi incinta mentre stavo scrivendo il libro, in un qualche modo la mia gravidanza ha seguito il corso del volume. Sentivo il feto scalciare durante gli incontri con l’editor, mi barcamenavo in talk sulla mia ricerca senza respiro a causa della gravidanza, tra mille vampate di calore. Poi, una volta consegnata la bozza finale del manoscritto – be’, il bambino ci ha messo solo una settimana a nascere. Sono arrivata alla conclusione che “gravidanza” e “gestazione” sono cose estremamente diverse, e che, anche se un giorno arriveremo a replicare la gestazione, non vorrà dire che sapremo replicare la gravidanza, che è specifica dei mammiferi ed è una relazione che prende e dà tra madre e feto. Tutti questi scambi minuscoli, impercettibili, non potrebbero mai essere replicati.

Fare quello che stiamo facendo qui, discutere l’ectogenesi, può scatenare reazioni anche molto violente, come sottolinei in Eva. Perché, secondo te, la prendiamo così sul personale?
Credo che un conto per le persone sia comprendere, e accettare, un grembo parzialmente artificiale come mezzo per supportare le nascite premature. Un altro è anche solo immaginare che un giorno (ma, di nuovo, ci tengo a sottolineare che si tratta di speculazione) una macchina possa creare una nuova esperienza di gravidanza: lì si arriva nella soggettività di ognuno. Scrivendo Eva, e parlandone, ho incontrato sia persone che erano entusiaste dell’idea che alcune che la trovavano orripilante. Questo, per me, vuol dire solo una cosa: che la gravidanza e il parto non sono esperienze monolitiche, universali, fisse, così come non c’è una sola nozione di maternità, o di genitorialità. Le opinioni delle persone sono influenzate dalla loro identità, dalla loro comunità di riferimento e dalle loro famiglie, oltre che dalle esperienze che hanno vissuto.

Ci troviamo in un momento di cambiamento rapidissimo, in cui è facile perdere di vista chi è venuto prima di noi, le loro conquiste. Come si tiene viva la memoria mentre affrontiamo i problemi di oggi?
Eva ha un sottotitolo in lingua originale, “il futuro disobbediente della nascita”. Disobbedienza, per me, significa rigettare uno status quo ingiusto. Quello in cui ci troviamo oggi fotografa una situazione in cui molte persone in tutto il mondo non hanno, ancora, accesso alle cure di base durante la gravidanza e il parto, per non parlare poi della disponibilità di metodi contraccettivi e abortivi. Inoltre, nello stato di cose attuale sono le donne a essere primariamente responsabili per il lavoro legato alla cura. Per rispondere, penso che tenere viva la memoria di chi ha combattuto per noi prima di noi significhi continuare a combattere per il cambiamento.

Pensi che oggi si abbia paura della tecnologia e del suo progresso? E se sì, perché?
Quando immaginiamo una tecnologia come l’ectogenesi, molte persone tendono a saltare a conclusioni distopiche o utopiche. La rappresentazione forse più famosa, e più cupa, degli uteri artificiali appare in Brave New World di Aldous Huxley. C’è questa idea di un futuro in cui tutti i bambini saranno creati in uteri artificiali, e in cui le relazioni saranno essenzialmente prive di emozioni umane, è piuttosto oscura. Allo stesso tempo, ci sono argomenti avanzati da alcune voci del femminismo degli anni Venti, ma poi resi famosi da Shulamith Firestone nel 1970, secondo i quali l’ectogenesi potrebbe permettere alle donne di condividere e redistribuire il lavoro della gravidanza e del parto.

Firestone scrisse che «la gravidanza è barbara», che aveva conseguenze che vanno dalla nausea alla morte, e che a causa del dominio della ricerca scientifica da parte degli uomini sapevamo mettere un uomo sulla Luna ma non avevamo un’alternativa alla gravidanza. La sua opinione era che, poiché la gravidanza e il parto erano iniqui, lo era anche il lavoro di cura dei bambini. In Eva sostengo che la tecnologia non possa risolvere, di per sé, i problemi sociali: questi richiedono soluzioni sociali, come cure per la gravidanza e il parto culturalmente sicure e rispettose per tutti, supporto parentale universale e congedi parentali più equi, oltre a cambiamenti negli atteggiamenti sociali verso il genere e la genitorialità. Penso che queste idee siano anche importanti provocazioni politiche.

Laura Tripaldi, che ha scritto la prefazione di Eva, parla della necessità per le donne di sviluppare una relazione più profonda con la tecnologia. Come possiamo cambiare il paradigma di questo rapporto?
Tornando a Firestone, sebbene immaginasse la possibilità di un utero artificiale come un’alternativa alla gravidanza che potesse essere liberatoria per le donne, scrisse anche che, nelle mani dei ricercatori contemporanei, non era plausibile che tale tecnologia venisse usata per scopi liberatori. Una delle domande che mi sono posta mentre scrivevo Eva è stata: nelle mani di chi, e in che tipo di mondo, l’ectogenesi potrebbe essere utilizzata per portare beneficio a tutte le persone in gravidanza? Sono profondamente ispirata da chi si batte per la giustizia riproduttiva, che è stata fondata da attiviste femministe nere di base negli Stati Uniti e che sostiene ugualmente il diritto di avere un figlio, il diritto di non avere un figlio e il diritto di crescere una famiglia in un ambiente sicuro e sano. È anche un movimento che legge questi problemi nel contesto di altre questioni di giustizia sociale. Penso che le precondizioni per questo tipo di mondo (in cui l’ectogenesi venga usata a beneficio di tutte le persone in gravidanza) siano il raggiungimento degli obiettivi della giustizia riproduttiva e il lavorare per garantire che non estendiamo le limitazioni del presente nel nostro futuro e sulle tecnologie a venire.

Che cosa succederà nel tuo futuro?
Al momento sto lavorando al mio prossimo libro di saggistica, e sto ragionando molto su come sia possibile creare un cambiamento strutturale all’interno dei sistemi che hanno causato danni. Credo ci siano molte persone che stanno riflettendo su questi problemi in relazione alle tecnologie in via di sviluppo. È un momento fertile ed emozionante.

Qui potete trovare l’intervista completa su Rolling Stone: https://www.rollingstone.it/cultura/interviste-cultura/claire-horn-la-tecnologia-e-positiva-solo-se-si-inserisce-in-una-societa-giusta/916076/

Vai al libro: https://www.addeditore.it/catalogo/claire-horn-eva/

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