17 agosto 2024

Risuleo, insolito universo: l’intervista a Fulvio Risuleo

L’intervista a Fulvio Risuleo a cura di Virginia Tonfoni sul supplemento Alias de Il Manifesto.

Ti sei diplomato al Centro Sperimentale di cinema, quando in realtà facevi già fumetti…
Corti e fumetti mi accompagnano si da ragazzino, ma a 18-19 anni ho pensato di diventare regista. Solo qualche anno dopo a Parigi, dove ho conosciuto Giacomo Nanni, Manuele Fior, Alessandro Tota e altri fumettisti, ho deciso di riprendere il fumetto, per il quale non mi sentivo abbastanza capace di disegnare. Così prima dei miei film è uscito Pixel con Castelvecchi (adesso rieditato da pièdimosca). Non so ancora dire se mi sento più regista o più fumettista.

Quando dirigi un film porti la tua idea originale fino alla sequenza per immagini; nel fumetto, soprattutto nel caso degli ultimi lavori con Antonio Pronostico («Sniff», «Tango» e «L’eletto», Coconino press) e con tuo padre Tonino («NapoliTopor», add editore) passi il testimone al disegnatore?
In parte: per esempio, La tenda, il romanzo appena uscito, è diverso da tutto il resto, proprio perché non ho diretto nessuno. Invece nei fumetti a quattro mani c’è sempre una direzione, che spesso viene presa insieme. Con i disegnatori un’idea appena abbozzata si migliora, si approfondisce, si cercano i personaggi. Ho impiegato invece molto a scrivere il romanzo perché non mi convinceva la forma, il modo in cui erano raccontate le cose. Le mie sceneggiature invece sono appunti sparsi, molti punti di partenza: quella de L’Eletto non a caso è scritta in corsivo, incomprensibile. Mi aiutano i dialoghi, che negli anni ho studiato molto i dialoghi, sia per il cinema che per il fumetto.

Credo che questo ti renda uno scrittore di personaggi…
Sì la cosa che mi piace di più anche nella vita sono le persone. Mi piacciono molto le interviste, le biografie, sapere i retroscena delle vite altrui. Credo molto nel gossip, anche in politica: trovo molto interessante il contesto in cui avvengono le cose. In Uno studio in rosso di Conan Doyle, Sherlock Holmes usa il metodo deduttivo per risolvere i casi, ma a un certo punto scompare per due o tre giorni. Quando torna, spiega a Watson di essere stato al bar, in mezzo alle persone e di aver risolto il mistero grazie a loro.

Anche Martino, il protagonista de «La Tenda» dopo la rottura con Mati nella sua deriva incontra molte persone. Dialoga con loro e con gli oggetti che trova nelle loro case: questi sono un ponte tra lui e il contesto, o sono oggetti specchio?
Sì, è una storia di personaggi e di incontri. Gli oggetti sono più oggetti specchio, perché attraverso i dialoghi con loro emergono aspetti della personalità di Martino a lui stesso sconosciuti. Non mi interessava il loro aspetto simbolico: non parto dal senso e non cerco l’allegoria o la metafora. Sono stati creati visualizzando l’ambiente, le case dei personaggi. Scrivo velocemente i dialoghi, senza punteggiatura. Se non funzionano li butto e li riscrivo da capo. Cerco il realismo, la credibilità anche in un oggetto che parla.

Martino come altri tuoi personaggi cinematograficiOrazio de «Il colpo del cane» o il poliziotto di «Notte fantasma»-porta alle estreme conseguenze una scelta bizzarra. Crea un sistema nel sistema, allestendo una tenda da campeggio nel salotto della casa di un conoscente; come gli altri personaggi fa una scelta discutibile, perde il controllo della situazione, eppure ne è in un certo modo consapevole…
Queste storie hanno in comune un eureka, un’idea che trattenuta per tanto tempo, a un certo punto viene liberata, dopo due o tre anni…sentivo che La tenda come fumetto o film non avrebbe funzionato, e quando Fandango, che aveva rifiutato una mia antologia di racconti, mi ha chiesto se non avessi un romanzo, anche breve, è arrivato l’occasione.

L’idea, la scintilla che dici, è spesso un elemento surreale che crea un effetto straniante nello spettatore e nel lettore.
Ma sono spunti di realtà; nel caso de Il colpo del cane un amico mi aveva raccontato di essere stato fermato per strada da una persona che gli aveva chiesto di fare accoppiare il suo cane per soldi. C’è una stesura spontanea, nel cinema scrivo prima la sceneggiatura e il soggetto è l’ultima cosa che faccio. Lo stesso è stato per il libro, non sapevo dove sarebbe andato e cosa avrebbe fatto Martino. Però la stessa Fandango ha pubblicato il racconto di John Cheever, Il nuotatore, dal quale è stato tratto anche un film con Burt Lancaster- oltre che una pubblicità della Levis’ degli anni ’90-che è la storia di questa persona che si sposta per la città nuotando nelle piscine dei vicini. Credo che vada annoverato tra le references di La tenda.

Nel romanzo ci sono piccole illustrazioni di testa che scopriamo essere fatte proprio da Martino. Non è la prima volta che i tuoi personaggi sono in senso metanarrativo autori, in parte, del racconto…
Mi piace disegnare con la tastiera con i codici ASCII e ho capito che potevano essere molto coerenti, in linea con i dialoghi tra Martino e gli oggetti: non volevo disegnare, ma queste illustrazioni somigliavano a una poesia grafica, hanno convinto anche l’editor.

Anche in uno degli ultimi lavori cinematografici, «L’uomo materasso», di nuovo interpretato da Edoardo Pesce, giochi con l’illusione di realtà: infatti il corto è un mockumentary. Ti interessa questo genere?
Uno dei miei film preferiti è un mockumentary belga Il cameraman e l’assassino. Mi piace giocare con la forma documentaristica, a prescindere dello schema vero/falso. In questo caso l’ispirazione è quella del giornalismo delle tv private: qui c’è un personaggio che avrebbe voluto essere un giornalista RAI ed è finito a coprire storie minori. Il giornalista Perri è un outsider (ho scritto in tutto 6 episodi, vorrei farne una serie). L’attore che interpreta l’uomo materasso, Edoardo Pesce (che è Orazio ne Il colpo del cane e il poliziotto in Notte fantasma) è quasi un co-sceneggiatore, gli basta dare un’occhiata alla sceneggiatura e pur non allontanandosene, costruiamo insieme i personaggi. Riesce a rendere credibile e realistica la mia scrittura, ha la mia stessa ossessione per la coerenza al contesto.

Il tuo lavoro si muove dal surrealismo, in cerca dell’iperrealismo…
È il concetto francese di bizarre, ovvero strano, inusuale, insolito. Da un punto di partenza surreale il trattamento dev’essere realistico; se invece si parte da un pretesto realistico, si può caricare. L’obiettivo è quello di rimanere sulla soglia dell’assurdo senza finire nel grottesco. È questo ciò che tiene insieme le mie idee, che diventino film, romanzi o fumetti. Credo che il prossimo progetto parlerà di una rapina in banca, del tempo in cui il denaro era esclusivamente fisico e i rapinatori parlavano di problemi di stampa con i falsari, proprio come noi fumettisti facciamo con i tipografi.

Qui potete trovare l’intervista completa su Il Manifesto.

Vai al libro: https://www.addeditore.it/catalogo/risulei-napolitopor/

Condividi