Ritratto dell’attesa: un’intervista ad Andrea Köhler
-di Stefano Delprete-
Ogni tanto, soprattutto con i libri brevi, ci si imbatte in un testo che quando lo chiudi ti lascia addosso un desiderio: riaprirlo immediatamente per tornare su alcune pagine, ma non per capirle meglio, per ritrovare piuttosto quella sensazione piacevole che hai provato leggendole poco prima. Si scopre così la necessità di tornare a uno stato d’animo, un tono, o anche a una semplice sequenza di parole che ci ha dato una sensazione piacevole.
Questa è la prima sorpresa che si prova dopo aver finito L’arte dell’attesa, un libro in cui la scrittrice e giornalista tedesca Andrea Köhler si mette sulle tracce di tutto quel tempo che, nelle nostre vite, passiamo aspettando qualcosa.
Cosa? Qualsiasi cosa, perché la condizione di attendere è una delle più frequenti.
Aspettiamo sempre, a ben pensarci, dal pullman, a una telefonata, dall’inizio di uno spettacolo, all’arrivo del dolce… Aspettiamo, perché siamo costantemente protesi verso qualcosa che un giorno (o tra pochi minuti) forse potrebbe arrivare.
L’arte dell’attesa è un libro che tiene compagnia e che è bello avere vicino, ne abbiamo parlato con l’autrice, a pochi giorni ormai dalla fine della lunga attesa che scandisce la vita di un libro, dalle mani del suo autore a quelle dei lettori.
Come è nata l’idea di questo libro? Leggendolo ci si trova davanti a una verità lampante e innegabile, ma di cui ci accorgiamo poco: le nostre esistenze passano quasi interamente nell’attesa come se fossimo immersi in una realtà di cui però non ci accorgiamo. Tu sei riuscita a farci vedere questo tempo e a dargli una definizione. Quando ti sei accorta che era necessario scrivere dell’attesa?
Non sono una persona particolarmente paziente e, come tutti, odio aspettare.
Fin da piccoli abbiamo però a che fare con l’attesa, e solo crescendo impariamo ad apprezzare il fatto che, proprio in quello spazio di sospensione, ci sono molte lezioni da imparare.
Per scrivere il libro sono partita da qui.
Ho sempre amato le grandi domande della filosofia e il tempo è uno dei temi più importanti e misteriosi della vita. Anche le situazioni che possono essere lette in diversi modi mi affascinano, e ci sono poche cose così ambivalenti come l’attesa.
A seconda del nostro stato d’animo o della situazione in cui ci troviamo, sperimentiamo il tempo dell’attesa in modo molto diverso.
Aspettare è spesso doloroso o fastidioso – penso a chi aspetta una diagnosi medica – ma può anche essere un momento di aspettative e di speranza. A ben pensarci non c’è crescita, né sviluppo senza aspettare e neppure ci sono ricompense senza mettere in conto un certo ritardo. La soddisfazione immediata, alla fine ci lascia insoddisfatti e ottenere un risultato implica sempre che prima ci sia del tempo passato ad aspettare.
Con questo libro volevo raccontare quanto sono importanti questi periodi di tempo che viviamo come inutili. Anche l’ispirazione artistica ha bisogno di tempo per emergere.
Kafka ha definito tutto ciò come l’“esitazione prima della nascita”, perché attendere vuole dire saper cogliere il momento giusto e non perdere l’occasione che ci passa davanti.
Il lettore esce da questo libro con molte idee in più, con qualche risposta, ma anche con tante domande che prima non si faceva.
Sembra che il libro sia stato anche un modo di lavorare su te stessa. Ti ha cambiato scrivere queste pagine?
Non credo sia cambiato il mio modo di pormi riguardo all’attesa, ma di certo da quando ho scritto questo libro sono molto più attenta a tutti quei momenti in cui aspetto qualcosa senza accorgermene.
Rimanere in sintonia con quel tempo ci aiuta a coltivare l’illusione che sia possibile evitare la separazione e possiamo anche arrivare a negare che la vita ci stia dicendo addio.
Il nostro tempo è limitato, lo sappiamo, e la vita è essenzialmente un’attesa della fine.
Questo pensiero dovrebbe rendere ogni minuto prezioso, eppure ci sono situazioni che vorremmo finissero presto, momenti di noia e ore di tempo sprecato.
Con questo libro ho voluto catturare i momenti altalenanti dell’esistenza, i ritmi che la regolano. Tutti, anche quelli che credevo di poter trascurare.
C’è qualche cosa la cui attesa ti spaventa? E quale attesa è invece sempre piacevole e amica?
Una parte del libro parla dell’attesa che diventa ansia. Una cosa che tutti condividiamo è la prima esperienza travolgente dell’assenza, quella della madre.
Per i bambini molto piccoli è una vera e propria “minaccia esistenziale” e credo che ogni volta che stiamo aspettando invano qualcuno che amiamo siamo sottoposti a un’esperienza simile. Poi però ci sono anche momenti di attesa meravigliosi, momenti inattesi, quando all’improvviso scopriamo di avere del tempo libero, da riempire con quello che ci piace.
Per me, questo momento è il viaggio: un esercitarsi ad amare l’imprevedibile.
Amo gli stati di passaggio, i momenti di mezzo, quando tutto sembra possibile, almeno per un po’. Sono loro l’essenza della libertà: il tempo per l’inaspettato, per la beatitudine, per la bellezza o anche per la pigrizia. Il tempo come regalo.
Anche la letteratura è il tempo di un’attesa. Dai nostri autori preferiti ci aspettiamo qualcosa: che ci aiutino a capire il mondo, che ci facciano innamorare di un personaggio, che ci raccontino la fine della storia. Tu cosa aspetti da un libro?
Leggere è un modo meraviglioso, oltre che utile, per passare il tempo in modo piacevole e ricco (il titolo inglese del libro è Passing Time e l’ho scelto perché ha il doppio significato di una persona che passa il tempo e del tempo stesso che passa).
La lettura – come l’attesa – ti permette di vivere in un tempo di possibilità.
Vieni trasportato in un altro universo, come se stessi viaggiando rimanendo solitamente seduto.
Ma i romanzi amo anche ascoltarli mentre nuoto (grazie al mio iPod resistente all’acqua), e in quei momenti è come se i due elementi, acqua e voce, si fondessero.
Se invece devo dire qual è la scrittura che preferisco, gli scrittori più vicini alla mia immaginazione sono quelli che sfidano l’idea di genere come Roland Barthes, per esempio.
Adoro la prosa di Walter Benjamin, così come i libri del grande filosofo tedesco Hans Blumenberg, o del poeta francese Yves Bonnefoy, che ha una prosa letteraria di straordinaria sottigliezza.
Tutti questi scrittori sono assolutamente originali, ma in qualche modo sono nati nel solco della tradizione di Montaigne.
Come è stato accolto il libro in Germania? E in America? Quale è stata la reazione dei lettori che più ti ha colpito?
Sono molto contenta, e fortunata, ad avere avuto non solo recensioni meravigliose sia in Germania sia negli Stati Uniti, ma anche riscontri bellissimi da parte dei lettori.
Si potrebbe pensare che il modo di vivere l’attesa negli Stati Uniti sia diverso da quello in Germania perché la cultura e il consumismo americano sono più attenti e interessati a una gratificazione immediata.
Invece ho scoperto che l’attesa è una condizione umana che non è influenzata dalle esperienze culturali.
Come hai detto prima, mi sono accorta che, in entrambi i continenti, dal mio libro i lettori non solo hanno tratto ispirazione, ma hanno soprattutto trovato domande e spunti per riflettere.
Cosa devono aspettarsi i lettori italiani dall’Arte dell’attesa?
Vorrei che i lettori entrassero un po’ più in contatto con i propri pensieri e con le emozioni vissute in quei momenti che spesso trascuriamo.
Il mio libro non è una guida su “come attendere”, né un saggio accademico, ma un testo giocoso che si appoggia a molte intuizioni: personali, filosofiche e psicologiche.
In America si chiamerebbe un personal essay.
Il mio obiettivo è quello di mettere il lettore nello stato d’animo giusto per trovare piacere in quei momenti meravigliosi, e sempre più rari, in cui possiamo vivere la lentezza e, anche, ritardare volontariamente un evento.
Illustrazioni di Marta Giunipero, studentessa al secondo anno di IED a Torino.