11 luglio 2024

Suono: l’intervista a David Toop

L’intervista a David Toop a cura di Nicolò Porcelluzzi su MEDUSA newsletter.

Facciamo finta di iniziare dalle sabbie canore. Nell’audio documentario accenno a un progetto del governo giapponese che, sul finire del secolo scorso, si è premurato di conservare 100 esemplari di paesaggio sonoro dell’arcipelago. Uno di questi, che non ho incluso perché c’erano esempi più comprensibili, è una registrazione delle sabbie canore di Kotogahama. Poi qualche settimana fa ho ripreso in mano il tuo libro e ho scoperto che – non mi stupisce – ne avevi scritto.
Gennaio 1995. Pare che le sabbie canore stiano scomparendo. Sono spiagge diffuse in tutto il mondo che cinguettano quando ci cammini sopra, un suono che è stato paragonato alla musica del koto giapponese. […] L’analisi di un campione di sabbia prelevato dal dottor Miwa a Pensacola Beach, in Florida, ha rivelato un alto tasso di agenti inquinanti mescolati alla sabbia silicea quarzifera pura al 99,7 per cento, ma quaranta minuti di bollitura in acqua hanno restituito alla sabbia la sua piena voce. Il campione del dottor Miwa è oggi in mostra al Niwa Sand Museum, nel Giappone del Sud.
Nel suo libro Magia orientale, Idries Shah sostiene che gli antichi Egizi interrogavano le sabbie canore come oracoli. Anche i popoli dei deserti mediorientali le ritenevano miracolose. Appena dopo la Seconda guerra mondiale, Shah era venuto a sapere che nel 1937 un derviscio libico aveva previsto la guerra, raccomandato di prepararsi alla Campagna del Nordafrica e predetto l’indipendenza dalla colonizzazione italiana sulla base di interpretazioni oracolari delle sabbie canore.

Cosa puoi raccontarci delle sabbie canore?
Quando ho scritto quel brano non avevo ancora sperimentato le sabbie canore. Da allora mi ci sono imbattuto in Scozia, in Australia, anche in Giappone, ma quel giorno la sabbia non cantava. La maggior parte delle persone non si rende conto del suono che diffonde la sabbia, ma se si presta attenzione, e si ascolta, si può notare non appena cammini sulla spiaggia. E naturalmente, non appena lo noti, puoi accentuarne ulteriormente il canto.

Incredibile.
L’anno scorso l’ho trovata nel Queensland, in Australia, con la mia compagna. Ci siamo filmati mentre camminavamo lungo la spiaggia che cantava. Non so, sto pensando a quando ho scritto quella pagina… Credo che la mia fascinazione originasse dall’idea che il mondo emette tanti suoni di cui non siamo consapevoli: nella nostra società l’ascolto è meno importante della vista. Quindi molte di queste cose sono più o meno sconosciute, anche se in realtà sono fenomeni che ti capita di incontrare, se stai facendo una lunga ricerca sui suoni del mondo.

Cosa ne pensi di queste leggende intorno all’origine della musica “ambient”, della nascita di questa etichetta? Il tuo aneddoto su Brian Eno è diventato canonico, anche se non voleva esserlo. [Lo riassumo: Brian Eno viene investito da un taxi e si trova bloccato a letto con una gamba rotta. L’artista Judy Nylon va a trovarlo e gli regala “un disco di musica settecentesca per arpa”. Una volta steso, Eno si rende conto che il volume era così basso da rendere la musica quasi impercettibile, ma non riesce ad alzarsi, ecco che scopre una modalità di ascolto alternativa: la musica diventa parte di quell’oceano, insieme a tutti gli altri effetti transitori di luce, ombra, colore, odore, gusto e suono: “era la nascita dell’ambient”. Qui invece la versione di Judy Nylon].
Ne ho parlato con Carlo Boccadoro, compositore e critico musicale, che non solo resta scettico rispetto all’operazione mitopoietica di Brian Eno (o di chi lo riverisce?), ma ci teneva anche a retrodatare i primi passi di questa esplorazione agli esperimenti di John Cage, anzi anche ad alcuni lavori di Erik Satie. Non ho idea di quante volte ti abbiano rivolto questa domanda sulle origini… Cosa pensi di questo nostro bisogno di miti dell’origine?
È una questione che non riguarda soltanto la musica ambient. Il mio primo libro era sull’hip-hop [Rap Attack: African Jive to New York Hip Hop (1984), ndA], e anche lì la gente fa la stessa cosa: “oh, questo è il primo esempio di hip-hop”. Suvvia, ci sono migliaia di primi esempi di hip-hop. Se si pensa alla musica prima dell’hip-hop, mi vengono in mente molti esempi di dischi che prevedono un tipo di discorso ritmico su una base musicale.
Quindi ogni volta che qualcuno dice “questo è il primo esempio di hip-hop”, o che “Tizio è il nonno dell’hip-hop”, per me sono tutte assurdità. Il motivo per cui ho parlato dell’incidente di Brian Eno… è che ero davvero lì. Sono andato a trovarlo a casa, quando era convalescente per quell’incidente, e mi ha raccontato di questa esperienza con Judy Nylon. Ma non credo di averne parlato nel libro come il primo esempio di ambient: era solo il primo esempio di quella particolare fase dell’ambient. E credo che attribuire queste origini a Cage sia altrettanto un errore, perché ci sono molti, moltissimi esempi a cui si può pensare che precedono tutta questa roba modernista, e che preesistono il – o esistono al di fuori del – quadro di riferimento europeo o americano.
Non direi mai che esiste un unico punto di origine per qualsiasi cosa, perché è sempre tutto molto più complicato di così. Ci sono dei punti che vengono individuati come salienti, e che diventano una sorta di storia ufficiale: i miei libri però vanno sempre contro tutto questo. Cercano sempre di complicare la situazione. Non per il gusto di farlo, ma perché è così che la vedo.

Capisco. Non di rado nelle tue ricerche ti rivolgi verso contesti culturali non eurocentrici, verso altre concezioni del suono, verso una visione anti-lineare del tempo e della musica, che è fatta di tempo. Una cosa divertente di Oceano di Suono è che tu, e tutte le persone con le quali parli nel libro, siete ossessionati dal non chiamarla musica ambient, dal fatto che questa ambient non esiste proprio. Perché dalle etichette si passa automaticamente alla profanazione.
C’è una pagina che ricordo bene, dove parli dei Power Rangers, no? Di questo articolo del Wall Street Journal che dà notizia “di una crisi globale fra gli insegnanti, secondo i quali la serie televisiva Power Rangers ha colonizzato l’immaginazione degli allievi più di qualsiasi altra moda giovanile precedente. Un docente della Kedren Headstart Preschool di Los Angeles mette ‘musica rilassante’ in classe allo scopo di raffreddare l’entusiasmo per i calci kung fu”.
Come se questa musica dovesse… fare qualcosa, rilassare i bambini scalmanati, o che ne so, raggiungere qualche preciso stato psichico, la trascendenza a comando. Ma è solo musica [qui nell’audio faccio una risata strana], è suono, e noi come specie la facciamo in continuazione, e dobbiamo parlare del perché la facciamo.
Sono scettico rispetto all’idea di una musica puramente funzionale, non mi piace affatto che qualcosa venga strumentalizzato a tal punto da diventare un altro gadget “nella cassetta degli attrezzi”, come se gli esseri umani fossero creature meccaniche a cui basta girare qualche vite e aggiustare qualcosa per renderli perfetti… Per me è tutto molto più organico, e penso che ci sia qualcosa che va molto oltre al fatto di rilassare le persone; di rilassarle per renderle presumibilmente individui che “funzionano meglio”.
Questa idea che tutti noi potremmo e dovremmo funzionare meglio… Beh penso invece che la musica sia una delle cose che ci aiuta a mettere in discussione tutto questo, che ci aiuta a capire meglio il modo in cui le cose funzionano davvero. Nei primi anni Novanta ho registrato un disco (Buried Dreams) con un mio vecchio amico che si chiama Max Eastley. Ecco, il disco ci mise qualche anno prima di uscire, uscì in un momento in cui l’idea di musica ambient era tornata attuale; era il 1994, poco prima di Oceano di Suono, e ricevette molta attenzione a livello internazionale, uscirono molte recensioni…
La gente era entusiasta, ma in giro si sentivano discorsi tipo “questo non è mica un disco per rilassarsi, fa paura”; insomma trovavano la nostra musica spaventosa, perché ci si aspettava che dovesse essere conciliante, e che ci si dovesse rilassare, sdraiarsi e lasciarsi avvolgere…
Il fatto è che la nostra esistenza si compone di molti aspetti diversi, e puoi avere paura di qualcosa che ami. Quando ero bambino, avevo molta paura del suono. Avevo paura dei suoni che sentivo senza conoscerne l’origine. Tutto questo per un bambino può essere molto, molto inquietante. Quando ero giovane, leggevo e rileggevo Edgar Allan Poe, e lui tornava spesso su questo argomento. Scriveva di suoni che avevano un’origine misteriosa e di suoni terrificanti –

The tell-tale heart!
Sì, quel racconto è un esempio perfetto. Mi è capitato di scriverne perché ha avuto un grande impatto su di me da bambino. E mi sembra che se si parla della natura dell’essere, non si possano escludere tutte queste parti inquietanti, tutte queste… Sì, devi abbracciarle e incorporarle in quello che fai.

Sono gli stessi discorsi che facevamo con Yi Ming Zhou, il sound designer del progetto. Grazie alle persone del Post abbiamo lavorato fianco a fianco, ci siamo trascinati nell’ossessione compulsiva… volevo evitare quell’idea meccanica che spunta quando si parla di mare: tutta quella musica “chill”, nel senso che mi fa venire i brividi, le ondine, i gabbiani… Certo, in un paio di momenti il mare doveva esserci, ma l’idea aveva più a che fare con l’ipnosi, e meno con il relax.
Il mantra era: queste storie sono aliene, fanno paura (anche). Le balene sono animali enormi, smisurati, l’occhio non riesce a prenderne le dimensioni, non capisce neanche di che colore siano. Non siamo previsti nella loro esistenza, vivono da milioni di anni, e vivono vite assurde – secondo i nostri parametri, ovvio. I capodogli vivono l’80% del loro tempo negli abissi, alla ricerca di cibo. Si orientano attraverso il suono. Sprofondano a velocità che ci farebbero sciogliere il cervello, scassare la gabbia toracica. Oppure prendiamo i delfini, ne ho parlato con dei biologi marini, e mi dicevano che la gente ama i delfini perché sorridono, no? Solo che non lo fanno, i loro musi hanno preso quella forma per questioni idrodinamiche, morfologiche, ecc. E se ti avvicini a un delfino e lui magari vuole giocare con te, in due secondi ti ritrovi a qualche metro di profondità, con i polmoni scoppiati.
Va bene, l’abbiamo chiarito, i suoni hanno qualcosa di spaventoso. Ma… torniamo alla questione dell’eco-localizzazione.
L’eco-localizzazione è qualcosa di veramente straordinario. L’idea di poter ottenere una proiezione tridimensionale di un ambiente utilizzando il suono… Certo gli esseri umani possono farlo, in una certa misura; le persone non vedenti sviluppano questa capacità molto più di quelle vedenti. Ma quello che possiamo fare è estremamente elementare rispetto a quello che possono fare i delfini o i pipistrelli. E se provate a mettervi in una situazione in cui un ambiente diventa spaziale attraverso il suono… beh, fa paura. È sconcertante.
Come il pensiero di un suono che può viaggiare per centinaia di chilometri, vedi il caso delle balene. Per non parlare di tutto lo stress che deriva da quella struttura sensoriale. Per queste creature, il rumore che riversiamo negli oceani è stressante, angosciante, distruttivo. E invece ascoltiamo i loro suoni come se fossero per forza messaggi gradevoli, positivi. Ma in realtà non abbiamo la minima idea di cosa stia veramente accadendo in quei suoni, a quanto disagio e malessere si accompagnino.

Nel tuo libro ho notato una coincidenza curiosa. Quando scrivi di Lamonte Young e Aphex Twin, racconti che da bambini si incantassero davanti al ronzio delle centrali elettriche. Anzi, sono loro a raccontarlo. Ecco, io sono cresciuto in una piccolo paese dove c’erano questi enormi tralicci che svettavano accanto al cimitero, al campo da calcio, agli argini del fiume… C’era qualcosa di spettrale in quei ripetitori, e di religioso. Poi li ho ritrovati anche nella poetica di David Lynch, no? Un altro amante del ronzio elettrostatico.
Credo che per alcune persone esista un fascino per i suoni non musicali. Che si tratti del vento nei fili del telegrafo o del suono dei macchinari, tutte queste cose possono affascinare chi è sintonizzato in quel modo. E diciamolo, magari siamo in pochi, ma alcuni di noi sperimentano il suono in questo modo. Secondo me, almeno in parte, è dovuto al fatto che si tratta di suoni prodotti da entità non umane: si entra in contatto con un mondo completamente diverso.
Si entra nel mondo delle macchine nello stesso modo in cui, se si ama il canto degli uccelli, si può entrare – in qualche modo – nella sfera linguistica degli uccelli, e in tutto ciò che accade in quella sfera. Sì, un altro esempio sono quei suoni sostenuti dagli armonici di cui puoi godere se ascolti un macchinario in funzione… Se sei un bambino ti può attrarre, è un’esperienza che ti accompagna in un altro mondo sonoro, dove non esiste nessuna estetica umana.

L’altra sera a Spoleto sono stato al concerto di Oneohtrix Point Never. Un altro amante dell’elettrostatica (e, per quanto ormai canonizzato, si parla poco o niente della sua scrittura: il suo ultimo disco, e il concerto, si aprivano con questi versi: I hear the power lines | They tell me I’ll be fine | Existence clear as mind | But isn’t the view so amazing? | The songbird cries to me | The flowers speak so freely | A wavelength in a sea | It’s just my interpretation).
La musica di OPN mi sembra un’altra eredità di quella rivoluzione di cui parli nel tuo libro. Te la rileggo al volo:
Questa tensione fra i dettagli del soul (e dell’anima) e il canto delle sirene oceanico portò a strani momenti nella carriera di Marvin Gaye, preso com’era fra apocalisse, sesso, tragedia personale e rêverie nei suoi ultimi lavori. […] Ascoltare oggi l’album è istruttivo, fosse solo per ricordare l’ubiquità dell’ambient negli anni Ottanta, da Miami Vice a Diva, da 9 settimane e ½ a Le Grand Bleu e Blade Runner. Bryan Ferry, Grace Jones, Art of Noise, Sade, Vangelis: atmosfera come stile; stile come mood; umidità, pioggia o colore come contenuto.

OPN è più interessato alla texture che alla struttura, e lo rivendica. La sua ricerca sonora ti interessa?
Sì, quando ho tenuto una conferenza alla Brown University in America – potrei sbagliarmi – credo che all’epoca fosse ancora uno studente, e venne a questa conferenza. Mi hanno detto che era molto interessato ai temi delle mie lezioni. A quel tempo, sempre se non vado errato, tenevo queste conferenze suonando e leggendo, insieme. Stavo esplorando l’idea di ricorrere a delle atmosfere per aggiungere qualcosa a queste conferenze puramente orali. Comunque: sì, mi è piaciuta molto la musica che ha fatto per quel film sui gioiellieri… Come si chiamava?

Uncut Gems. [Uno dei film preferiti di MEDUSA. Uno dei nostri ceri pasquali.]
Uncut Gems. Sì, era musica molto interessante.

In Sonar si parla anche di Pauline Oliveros e del suo Deep Listening. Per concludere, potresti condividere con noi il tuo ricordo?
Certo, l’ho incontrata diverse volte in Irlanda, a Cork, nell’Irlanda del Sud. Ho avuto l’opportunità di vederla esibirsi, di parlare e cenare con lei. Sì, era una persona intensa [powerful], era una persona forte. Non avrebbe potuto fare tutto quello che ha fatto senza essere così forte, sai, lavorare a quelle idee e svilupparle nell’ambiente molto, molto maschile degli anni Cinquanta e Sessanta. E ha sviluppato questa idea, che ha avuto un’enorme influenza, del Deep Listening. Sì, anche se è stata soltanto una delle tante cose che ha fatto.
Ha portato avanti l’idea di un’estetica femminista applicata alla musica. L’idea di una donna che lavorava, ripeto, nella musica elettronica, un contesto molto tecnocratico, molto maschile. Ecco, Oliveros ha creduto in questi laboratori che suggerivano di sviluppare le proprie capacità di ascolto in qualcosa che andava ben oltre ciò che si pensava possibile. Ha avuto una serie di intuizioni innovative e sorprendenti insomma, ed è bello vederla sempre più riconosciuta per tutto questo.
Quando l’ho intervistata per Oceano di Suono, infatti, non era circondata dalla stessa reputazione. Era ancora vista come un personaggio marginale. Oggi però è diventata una figura centrale quando si parla di ascolto, e di come si possa sviluppare un’etica attraverso la propria pratica di musicista. Fare musica riguarda il modo in cui hai scelto di vivere, e il modo in cui intrecci relazioni con le altre persone; anzi, non solo con le persone, ma anche con gli oggetti, i ricordi e le altre credenze.
Fare musica non è solo un’attività professionale, o sperimentazione. È un’attività etica.

Qui potete trovare l’intervista completa.

Vai al libro: https://www.addeditore.it/catalogo/david-toop-oceano-di-suono/

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