Tecnologia canaglia, la Cina tra scienza e “red mirror”: intervista a Simone Pieranni
Tecnologia canaglia, la Cina tra scienza e “red mirror”: l’intervista a Simone Pieranni a cura di Andrea Valdambrini su Sapereambiente.
Nel tuo saggio parli di una tensione della scienza e della tecnologia, vista dal Partito ora come alleata, ora come nemica. Sembra questo il cuore della storia, se la guardiamo a colpo d’occhio.
Il Partito comunista cinese (Pcc) ha sempre visto tecnologia e innovazione scientifica come motore per far sì che il Paese potesse crescere economicamente e la popolazione potesse arrivare a un benessere sempre più esteso. Eppure, soprattutto negli ultimi 20 anni, la tecnologia ha rappresentato anche un rischio. Pensiamo a internet prima e oggi all’intlligenza artificiale. Il punto è che lo sviluppo tecnologico non è mai neutro, dipende sempre da chi la gestisce.
E in Cina il dubbio su chi la gestisce non c’è…
Infatti da un lato il Pcc doveva dar corda alla scienza perché potesse evolversi il Paese. Dall’altro, ogni cosa nuova che arrivava doveva essere almeno controllata o addirittura diventare volano della propaganda.
Anche la politica del figlio unico, formalmente abbandonata solo di recente, ha a che fare con la tecnica, in particolare con la visione ingegneristica della società.
Siamo di fronte un unicum nella storia dell’umanità: l’ingegnerizzazione della demografia. Dato che tra anni ’70 e ’80 si passava da Mao Zodong a Deng Xiaoping – con apertura al mercato globale di quest’ultimo – anche gli scienziati impiegati prima in ambito militare passano in questa fase a occuparsi di progetti civili. La politica del figlio unico è il caso più emblematico, perché negli schemi matematici su cui essa si basa rientravano una serie di scienziati che hanno preconizzato negli anni ’70 e ‘80 la Cina di oggi. Ovvero un Paese ingegnerizzato in cui la tecnologia serve come motore di sviluppo economico ma anche strumento di controllo.
Un capitolo di Tecnocina è dedicato a quella fase dei nerd al potere (il riferimento è a Jang Zemin, alla guida negli anni ‘90) un altro alla “transizione sottovalutata” di Wen Jabao e Hu Jintao (anni 2000). È in questa fase momento che si configura molto del materiale che Xi Jimping riplasma. In che modo?
Controllo sociale e lo stato di sorveglianza non sono nuovi. Basti pensare come la repressione più dura è avvenuta sotto Hu Jintao, a partire dal 2008 durante le Olimpiadi. All’epoca ero a Pechino e ricordo che ogni giorno spariva qualche attivista con cui ero in contatto e si scopriva solo mesi dopo che erano stati arrestati. Insomma, la sorveglianza in Cina nasce con Jang Zemin, si concretizza con Hu Juntao e viene utilizzata da Xi Jimping. Infatti Xi si è dedicato non tanto a reprimere attivisti nemici del regime – quello era stato già fatto – ma piuttosto alla campagna anticorruzione dentro il Partito e a colpire imprenditori privati. Al massimo si è concentrato sul movimento femminista che è l’unico movimento nuovo.
La tendenza è molto chiara…
Xi non inventa nulla, porta a maturazione e si serve di quello che è stato preparato. Tutte le leadership cinesi si muovono in una logica della continuità nella discontinuità. La centralità geopolitica, economica e tecnologica che viene realizzata solo adesso è un obiettivo presente dall’epoca di Mao, che Xi ha potuto realizzarla grazie alle condizioni storiche. Si usa spesso una formula: Mao ha liberato la Cina, Deng l’ha fatta ricca, Xi l’ha fatta potente.
Un percorso storico come quello tracciato nel tuo saggio non può che avere un finale aperto: le scelte future dipenderanno da chi sarà al timone dopo Xi. Tuttavia, in una prospettiva storica, il rapporto delle classi dirigenti cinesi con la tecnologia sembra essere addirittura strutturale alla morale confuciana. E per questo consolidata. Faccio di nuovo riferimento a quelle pagine sulla politica del figlio unico e dove parli di “visione scientifica della società concepita come software”.
La tecnocrazia viene da lontano e permane nella Cina di oggi. Infatti, ne stiamo vedendo una nuova edizione con Xi Jinping. I suoi tecnocrati sono funzionari che arrivano tutti dal settore scientifico, soprattutto quello aerospaziale (quello su cui la Cina punta di più). L’attuale leader cinese ha riportato la politica ad essere dirimente nella gestione rapporti interni al Pcc e nella postura internazionale. Si pensi alle parole d’ordine come il sogno cinese, l’esigenza di raccontare bene il Paese, il tentativo di essere un modello per il sud globale. Ma a Pechino lo sviluppo è ancora guidato in un’ottica tecnocratica, in cui anche la società viene vista come un software gestito dall’hardware politico e umane che è quello del Pcc.
Già con Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2000) parlavi di web e intelligenza artificiale. Ma lo avevi fatto al presente e ora ci torni in chiave storica. La tecnologia è una chiave privilegiata per capire la Cina?
La prospettiva storica nasce dall’esigenza di raccontare e capire bene le cose, perché non è che un giorno ci siamo svegliati e la Cina è diventata una superportenza. Non c’è solo l’intelligenza artificiale (IA) di cui oggi si parla molto. Consideriamo sempre che l’innovazione scientifico-tecnologica è alla base dello sviluppo militare, ovvero il grande gap che la Cina deve colmare rispetto ai rivali Usa. Pechino ha capito che sono proprio i Paesi leader nell’innovazione scientifica e tecnologica a diventare importanti sullo scacchiere internazionale, come accade alla piccola Taiwan.
Una lente privilegiata per capire la Cina?
Direi di sì, la Cina e il mondo. Spiega ad esempio perché una potenza regionale come l’Iran chiede aiuto a Pechino. Oppure il rapporto tra Pechino Israele: alla base di queste relazioni economiche e commerciali troviamo sempre la tecnologia.
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