Un nuovo libro per conoscere davvero la cultura della cucina cinese: l’ntervista a Fuchsia Dunlop
L’intervista a Fuchsia Dunlop a cura di Manuela De Leonardis su Artribune.
Il cibo offre la prima chiave di lettura rispetto a un luogo, alla sua cultura, storia, tradizione e identità. Hai avuto questa consapevolezza già durante l’infanzia, quando tua mamma (Carolyn Patricia Baxter), ottima cuoca e insegnante d’inglese per stranieri a Oxford ospitava a casa i suoi studenti internazionali che cucinavano piatti di tutto il mondo?
Ero piccola quando è cominciato tutto, ma allora non ne ero conscia. È certo che ero solita vivere con persone provenienti da culture e paesi diversi che mangiavano cibi differenti, e ne deriva anche il mio essere adattabile. Quando mia madre era incinta di me, mia nonna le regalò un abbonamento alla rivista Le Cordon Bleu e lei cucinava meravigliosi piatti della cucina francese: scherzando in famiglia si diceva che ancor prima che nascessi mi nutrivo di cibo francese!
Nella tua famiglia c’erano delle tradizioni culinarie?
La cucina aveva una parte molto importante nella nostra vita familiare. Mia madre cucinava non solo perché ci doveva sfamare, ma perché le piaceva proprio cucinare. Abbiamo una grande libreria di libri di cucina che lei ha ricevuto da sua madre, trasmessi da una generazione all’altra. Non c’era una formazione professionale, solo un autentico interesse per il cibo. Mia madre trascriveva ricette di amici stranieri che imparava e la nostra casa era piena di ospiti stranieri che cucinavano piatti dei loro paesi e che, poi, noi continuavamo a preparare.
Quando, nel 1995, sei andata a Chengdu per frequentare la prestigiosa scuola di cucina Sichuan Institute of Higher Cuisine, prima studentessa occidentale del corso, quali erano i maggiori pregiudizi rispetto alla cucina cinese? E come è cambiato, nel tempo, lo scenario?
La conoscenza della cucina cinese da parte degli inglesi era molto limitata. Si pensava che fosse come un cibo take away, oppure che il cibo cinese fosse pieno di cose molto strane, tipo le zampe di gallina o ingredienti ancora più bizzarri. In qualche modo è una contraddizione, perché a tutti in Occidente piace il cibo cinese, ma allo stesso tempo c’è una grande opinione negativa. Non si pensa che la cucina cinese è anche di alto livello: non c’è niente di male nel cibo take away, ma non ha niente a che vedere con la cucina cinese, che è sofisticata ed estremamente varia.
Alla cucina cinese è dedicato il tuo ultimo libro Invito a un banchetto. Sapori e storie della cucina cinese, il primo tra i libri di cui sei autrice a essere tradotto in italiano. In cosa si differenzia rispetto agli altri?
Ho pubblicato sette libri per la maggior parte di ricette e due narrativi: questo è il secondo dopo Shark’s Fin and Sichuan Pepper: A Sweet-Sour Memoir of Eating in China, un memoir uscito nel 2008. Amo molto fare ricerca e scrivere di cibo cinese, ma in un libro di ricette c’è un limite rispetto a quello che si può dire. Sono trent’anni che scrivo di cucina cinese, parlando con le persone e leggendo, ecco perché ho voluto dare più spazio per approfondire il significato di cos’è il cibo cinese e come si è evoluto, così da poter essere apprezzato meglio. Ho messo insieme tante cose che ho letto, ma anche molto della mia esperienza personale, per cercare di dare al lettore una visione aperta su questo cibo, che lo porti a capire la differenza rispetto a quello che pensava prima.
Nella cucina cinese, in particolare in quella Sichuanese, quanto è importante la componente estetica?
È incredibilmente importante. C’è una frase, “se xiang wei xing”, che vuol dire colore, fragranza, sapore, forma. La pietanza deve avere diversi aspetti: essere bella, avere un odore e un gusto squisito e una forma piacevole anche quando è nella bocca. Un cibo cinese è come una composizione dove non si ripetono gli elementi. Per esempio, se si ha una pietanza scura cucinata con la salsa di soia, accanto ci vuole anche qualche verdura di un verde luminoso. C’è un’estetica nel modo di presentare i piatti e anche se non ci si pensa, inconsciamente, fa il suo effetto. A un livello più sofisticato gli chef pensano a come tagliare con esattezza gli ingredienti e a come questi si combinino visivamente, esteticamente e a livello di sapore. Ma anche a come servirli. Ad alto livello certamente la cucina cinese si presenta come forma d’arte.
Quando sei ai fornelli, qual è la negoziazione tra necessità e piacere?
Penso che la grandezza della cucina cinese sia nell’equilibrio che è già al suo interno. Sia dal punto di vista nutritivo – naturalmente parlo del cibo buono – che per l’aspetto della piacevolezza. A casa cucino prevalentemente cibo cinese e trovo di aver assorbito molto della tradizione, sia nel cucinare che nel mangiare. Posso mangiare cibo molto sano con tante verdure e poca carne e renderlo gustoso. Le melanzane profumate al pesce del Sichuahn sono uno dei miei piatti preferiti: anche se si tratta solo di verdura, è magnificamente soddisfacente! È fatto con le melanzane, pasta di fagioli al peperoncino, zenzero, aglio, cipolla, zucchero e aceto. Anche un piatto di verdure cotte nel wok con gamberi essiccati e tofu fermentato è qualcosa di veramente delizioso e altamente salutare.
Usi la fotografia come una sorta di block notes per fermare un ricordo?
Sì. Quando ho iniziato la fotografia era ancora analogica e scattavo poche immagini di cibo perché era costoso, ma con il digitale è stato possibile farlo più assiduamente. Soprattutto quando ricreo delle ricette è incredibile poter guardare le fotografie di quei piatti. Anche come forma descrittiva, la fotografia è diventata parte del processo. Ho sempre dei block notes dove scrivo appunti delle ricette, ma avere anche le fotografie è incredibile.
Nei tuoi libri parli anche di quello che tuo padre, Bede (Michael) Dunlop, chiama the grapple factor, il fattore della presa. Qual è il suo significato? C’è una relazione con il finger food?
Non c’è proprio una relazione con il finger food, perché una parte della presa si fa con le dita, ma si usa anche la bocca. Si tratta anche di afferrare e lottare con il cibo, qualcosa di complicato da fare. Mio padre usa questo termine riferendosi, ad esempio, ai gamberi nel guscio che non sono semplici da mangiare, proprio perché bisogna toglierli dal guscio. I cinesi non lo fanno con le dita, ma con i bastoncini e usano anche la bocca e i denti. È lo stesso con la lingua di anatra, ma in questo caso la presa sta in bocca. Per un inglese mangiare cibi del genere è qualcosa di scomodo, soprattutto se si è ben educati e non si fa rumore mangiando, non si tiene la bocca aperta né si sputa. Perciò, mangiare la zampa di gallina o la lingua di anatra è traumatico perché non si può farlo silenziosamente. Diversamente i cinesi possono usare i bastoncini, sputare con eleganza i gusci nella ciotola e anche fare rumore.
Oltre alla cucina cinese, ami particolarmente quella turca e quella giapponese. Nella straordinaria diversità di queste cucine trovi che ci siano anche elementi comuni?
Con la cucina giapponese l’elemento comune è più ovvio, perché molti ingredienti provengono dalla Cina: la salsa di soia, il tè, il tofu, il ramen… È affascinante vedere come si sono sviluppati. Ma quello veramente sorprendente è il legame tra la Turchia e la Cina. Uno dei piatti classici della Cina del Nord è il mantou, un panino cotto al vapore che in altre parti del paese è un tipo di raviolo ripieno di carne. La stessa parola si usa in tutta l’Asia centrale: ad esempio, in Uzbekistan quei ravioli si chiamano manti. Linguisticamente può darsi che questa parola, in un tempo passato, provenisse dalla Turchia. Penso che anche il grano e la pecora siano originari dell’Occidente, mentre la tecnologia per macinare molto finemente il grano per fare i noodles provenga dall’Asia Centrale, così come il sesamo, il coriandolo, gli spinaci… ingredienti importanti nella cucina cinese giunti in Cina attraverso la Via della Seta.
Qual è la cosa più strana – piatto o ingrediente – che ti è capitato di mangiare?
(ride) L’ingrediente più strano che ho mangiato è il palato di maiale con cui si prepara uno snack chiamato “tiantang”, paradiso. È incredibilmente gommoso, ma cotto con olio di peperoncino è gustoso. Chi l’avrebbe mai detto che avrei mangiato questa parte del maiale, pensavo mentre lo assaporavo!
Qui l’intervista completa.
Qui il libro: https://addeditore.it/prodotto/fuchsia-dunlop-invito-a-un-banchetto/