Una vita per il basket, un caffè con Sarunas Jasikevicius
– di Pietro Scibetta –
“Ci vediamo domattina al tuo albergo”. Lo Zalgiris Kaunas, la più grande squadra di basket della Lituania, ha appena perso in casa di un punto contro la Juventus (già, proprio così) e lui – Sarunas Jasikevicius – è il vice allenatore di Kaunas.
Non è solo questo: qualche mese prima era riuscito a vincere il campionato giocando la sua ultima stagione proprio a casa sua, lo Zalgiris, dopo aver girato l’Europa e il mondo vincendo praticamente ovunque. Ora, davanti a me, si stava apprestando a raccontare, svelare, sviscerare ogni particolare di una carriera professionistica durata 16 anni, condita da titoli di campione d’Europa e tributi di ogni genere (l’ultimo quello dell’Eurolega, l’ente che organizza la massima competizione europea, che l’ha nominato “Euroleague Legend”).
Quando ricevo il messaggio di Sarunas sono ancora a Vilnius, atterrato da poco, ed è già notte. La mattina successiva percorro in taxi la strada che collega la capitale a Kaunas, cercando di ricavare una prima impressione di un Paese che per gli appassionati di basket è qualcosa di sacro, visto il numero e il livello di talenti che si riescono a produrre considerando un bacino di giocatori numericamente piuttosto limitato.
La sua puntualità, una volta arrivato a Kaunas, non stupisce affatto. Sarunas Jasikevicius è diventato un campione nell’era dei cybercorpi senza essere un atleta straordinario. Poteva riuscirci solo massimizzando attenzione, concentrazione, cura del particolare, accurato livello di analisi del gioco, capacità di critica e di autocritica (con la relativa personalità per sopportare), e poi una grande insicurezza. Sì. Se non avesse avuto continuamente bisogno di conferme non si sarebbe allenato tanto, non avrebbe posto così tante domande, non avrebbe visto così tanti filmati e non avrebbe dato così tanti consigli, anche non richiesti, ad allenatori, compagni e non ultimo agli arbitri.
“Un caffè?”. Un caffè. E si comincia. Giusto il tempo di accendere il registratore. Abbiamo una settimana da trascorrere insieme per iniziare il lavoro e lui è mentalmente programmato: non c’è un minuto da perdere. Inizia subito a parlare, e vengo travolto dallo stesso tipo di insicurezza: quanto devo lasciarlo fare? Quando interromperlo? Non sbagliare le domande. Ovvio, era la mia parte del lavoro. Ma Sarunas, per chi conosce il basket, non è stato soltanto un giocatore e il suo carattere straordinario esce ad ogni risposta che mi dà, in ogni racconto che mette sul tavolo.
“Pensi che questo dovrei scriverlo?”. Ogni tanto si ferma, riflette, lo vedo mentre mentalmente riavvolge il nastro. Passiamo una settimana nella biblioteca dell’Hotel Perkuno Namai, uno dei posti più meravigliosamente silenziosi che abbia mai sperimentato. Il cameriere, sempre lo stesso, dal secondo giorno prende le misure: ogni giorno troviamo apparecchiato con acqua liscia, bicchieri e, un minuto dopo esserci seduti, arrivano i caffè. Metodico, come Saras.
Non è stata un’intervista e nemmeno un colloquio. A dirla tutta, sembrava una terapia e forse lo era, perché quando si è iniziato a discutere del progetto Sarunas ha detto: “Questo sarà un bel modo di voltare pagina e chiudere la carriera”. Voltare pagina, scrivendo un libro. Niente di più bello.
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