«La scherma è un modo di vivere. Fa appello a qualcosa di profondo che sta dentro di noi.
Ecco perché se mi chiedete qual è stata l’esperienza fondante della mia vita vi rispondo la scherma, e solo in seconda battuta il cinema. Che, senza la scherma, non sarebbe stata la stessa cosa.»
Davide Ferrario racconta la scherma come farebbe un film, partendo da un primissimo piano su un atleta fermo in pedana per poi allargare l’inquadratura, andando avanti e indietro nel tempo: un’arte incontrata da adolescente, un po’ dimenticata per i casi della vita, ma poi meravigliosamente riscoperta e mai più abbandonata.
Sulla pedana si impara a conoscere se stessi, e la maschera, confine tra il “sé” e il mondo, è una porta che si apre e si chiude su un’altra dimensione, qualcosa che ha a che fare col “chiudere il mondo fuori”.
Esattamente quello che succede quando si spengono le luci in sala: si entra in un mondo di ombre, riflessi e silenzi, e ci si prepara a incontrare qualcosa che sta “di là”.
Un combattimento è come un film di cui si è allo stesso tempo attori, registi e spettatori.
Sarà un caso che di un film che ci emoziona diciamo che è un film “toccante”?
È strano quello che può succedere sotto la maschera. Sì, certo, fisicamente sono io che calco la pedana: ma dietro la maschera io so che c’è un altro, un doppio che tira al posto mio.