Quando Rangoon era il centro del mondo e Pablo Neruda lì si innamorava
«Per la fine degli anni Venti, Rangoon superava addirittura New York come maggiore porto di immigrazione al mondo; l’afflusso la trasformò in una città indiana, in cui i birmani erano ormai una minoranza. Vi si mescolavano persone da ogni parte del subcontinente, da insegnanti bengalesi a banchieri del Gujarat, da poliziotti sikh a commercianti tamil. C’erano anche cinesi e comunità minori di europei, statunitensi e latino-americani (negli anni Venti anche il poeta cileno Pablo Neruda visse lì per un breve periodo). Fu proprio per descrivere il miscuglio di nazionalità di Rangoon che l’economista politico di Cambridge J.S. Furnivall, per molti anni funzionario in Birmania, coniò l’espressione “società plurale”.» (tratto da Myanmar. Dove la Cina incontra l’India di Thant Myint-U)
Pubblichiamo una poesia scritta da Pablo Neruda nel 1928, a bordo della nave su cui lasciava Rangoon (oggi Yangon), per l’isola di Ceylon (oggi Sri Lanka). L’episodio che l’ha ispirata è raccontato nelle sue memorie:
«Mi addentrai a tal punto nell’anima e nella vita di questa gente che m’innamorai di una nativa. Vestiva come una donna inglese e si faceva chiamare Josie Bliss. Ma nell’intimità della sua casa, che presto condivisi, si spogliava degli abiti europei e di quel nome per usare il suo abbagliante sarong e il suo misterioso nome birmano. Ebbi qualche difficoltà nella mia vita privata. La dolce Josie Bliss si andò appassionando e chiudendo in se stessa fino ad ammalarsi di gelosia. Se non fosse stato per questo, io forse avrei continuato a stare con lei. Provavo tenerezza per i suoi piedi nudi, per i fiori bianchi che splendevano sui suoi capelli bruni. Ma aveva un temperamento che la portava ad eccessi di un parossismo selvaggio. La sua gelosia le faceva odiare le lettere che mi giungevano da lontano, nascondeva i miei telegrammi senza aprirli; guardava con rancore l’aria che respiravo. A volte mi svegliava una luce, un fantasma che si muoveva dietro la zanzariera. Era lei, vestita di bianco, che brandiva il suo lungo e affilato coltello indigeno. Era lei che andava su e giù per ore intere intorno al mio letto senza decidersi ad ammazzarmi. – Quando morirai finiranno i miei timori – mi diceva. Il giorno dopo celebrava misteriosi riti per propiziare la mia fedeltà. Avrebbe finito per uccidermi. Per fortuna ricevetti la comunicazione ufficiale del mio trasferimento a Ceylon. Preparai il viaggio in segreto e un giorno, abbandonando indumenti e libri, uscii di casa come al solito e salii sulla nave che mi avrebbe portato lontano. Lasciavo Josie Bliss, quella sorta di pantera birmana, nel più grande dolore. Appena la nave cominciò a muoversi sulle onde del golfo del Bengala, mi misi a scrivere il componimento Tango del vedovo, tragico brandello delle mia poesia destinato alla donna che persi e che mi perse perché nel suo sangue crepitava senza tregua il vulcano della collera. Com’è grande la notte! Com’è sola la terra!» (tratto da Confesso che ho vissuto, Pablo Neruda)
Oh Maligna, avrai già trovato la lettera, avrai già pianto con furia
e avrai insultato la memoria di mia madre
chiamandola cagna putrefatta e madre di cani,
avrai già bevuto da sola, in solitudine, il tè della sera
guardando le mie vecchie scarpe vuote per sempre
e non potrai ricordare i miei malanni, il mio dormire, il mio mangiare
senza maledirmi ad alta voce come se io fossi ancora lì
a lagnarmi dei tropici dei coolies corringhis*,
delle febbri velenose che mi hanno rifinito
e dei ripugnanti inglesi che odio ancora.
Maligna, in verità, com’è grande la notte, com’è sola la terra!
Sono tornato di nuovo nelle camere solitarie,
mangio nei ristoranti pietanze raffreddate, e di nuovo
butto per terra i pantaloni e le camicie,
non ho attaccapanni nella stanza né ritratti alle pareti.
Quant’ombra, di quella che albergo in cuore, darei per riaverti
e quanto minacciosi mi sembrano i nomi dei mesi
e che suono di lugubre tamburo ha la parola inverno!
Sotterrato vicino al cocco troverai più tardi
il coltello che ho nascosto per timore che tu mi uccidessi,
e ora all’improvviso vorrei fiutare la sua lama da cucina
abituata al peso della tua mano e al fulgore del tuo piede:
sotto l’umidità della terra, tra le sorde radici,
delle umane parole il poveretto non saprà che il tuo nome,
ma la grossa terra non capisce il tuo nome
fatto d’impenetrabili sostanze divine.
Come mi angoscia pensare alla sfolgorio delle tue gambe
distese come ferme e dure acque solari,
alla rondine che dorme e vola nei tuoi occhi,
al cane di furia che alberghi nel cuore,
così vedo anche quanta morte c’è tra noi due da quest’ora
e respiro nell’aria cenere e distruzione,
il lungo, solitario spazio che mi circonda per sempre.
Darei questo vento del mare smisurato per il tuo brusco respiro,
che ho udito in lunghe notti senza oblio
congiungersi all’aria come la sferza al cavallo.
E per udirti orinare, nel buio, dal fondo della casa,
come versassi un miele sottile, tremulo, argentino, ostinato,
quante volte darei questo coro d’ombre che è mio,
e il rumore d’inutili spade che mi sferraglia nel petto
e la solitaria colomba di sangue che sta sulla mia fronte
a invocare cose scomparse, esseri scomparsi,
sostanze stranamente inseparabili e perdute.
*I corringhis sono uno speciale gruppo di coolies (uomini di fatica indigeni).
Poesia di Pablo Neruda