Stranieri, smarriti su un molo
-di Tash Aw, illustrazioni originali di Eugenio Nittolo-
Un estratto da Stranieri su un molo, saggio di Tash Aw uscito lo scorso aprile nella collana Asia di add editore.
Le illustrazioni sono state realizzate appositamente per Spazio B da Eugenio Nittolo.
Entrambi i miei nonni, a un certo punto negli anni Venti del secolo scorso, avevano compiuto la rischiosa traversata dalla Cina meridionale alla penisola malese.
Erano appena adolescenti quando fecero quel viaggio, fuggendo da una Cina devastata dalle carestie e frammentata dalla guerra civile. Dubito che le loro famiglie sapessero molto della confusione politica che regnava nel paese all’epoca dei signori della guerra.
Forse era giunta voce che la dinastia Qing era capitolata, che non avevano più un imperatore.
Ma non avrebbero potuto capire cosa significava vivere tra le rovine fresche di un impero millenario, non avrebbero potuto capire la complessità del conflitto che s’inaspriva fra il Kuomintang, il partito nazionalista di Chiang Kai-Shek, e il sempre più potente Partito Comunista.
Non sapevano di vivere un periodo cruciale, un’era che avrebbe posto fine a tutte le altre, l’inizio di un romanzo di cui solo oggi iniziamo ad avvicinare i capitoli centrali.
Era il momento in cui la Cina intraprendeva il cammino che, cento anni più tardi, l’avrebbe portata a dominare l’immaginario mondiale; eppure non avrebbero mai visto il proprio paese diventare la fabbrica del globo, il più grande consumatore di beni di lusso, la seconda economia del mondo, rispettosa soltanto della potenza degli Stati Uniti.
In quegli anni, pensando al proprio futuro, volevano solo sottrarsi a una schiacciante povertà.
E a quei tempi, le vie della salvezza portavano quasi immancabilmente alle terre calde e fertili che si estendevano in quel vasto arcipelago a sud della Cina, dove gli imperatori cinesi avevano istituito una rete secolare di rotte commerciali e antichi rapporti basati su stati vassalli e tributari, con al centro i porti di Singapore e Malacca.
Era un’area di grandi promesse, nota ai cinesi come Nanyang, l’Oceano meridionale.
A volte, quando arrivo a New York o a Shanghai – vecchie città portuali che hanno attratto generazioni di immigrati – mi trovo a reimmaginare lo sbarco dei miei nonni a Singapore, un luogo ignoto i cui scorci e suoni, tuttavia, devono essere stati d’inaspettato conforto.
Il clima: caldo e umido, proprio come le lunghe estati delle loro terre.
Qui non ci sarà una stagione fresca, nessuna tregua dal calore e dalla pioggia, ma loro ancora non lo sanno. Il paesaggio: latifoglie sempreverdi e corsi d’acqua, la vicinanza del mare.
Di nuovo, quasi come a casa.
L’odore: di terra bagnata e vegetazione che marcisce; di cibo, di possibilità. E soprattutto, è la gente a dare loro la sensazione che qui potranno vivere.
È una colonia britannica, ma è una città di libero scambio, allora come adesso.
Gli stranieri arrivano facilmente, trovano impiego facilmente; rimangono.
Costruita sugli ottant’anni di immigrazione cinese seguiti all’insediamento britannico e sull’utilizzo delle risorse naturali da parte del governo coloniale, Singapore è piena di cinesi – operai, coolie che lavorano al porto, discendenti di braccianti a contratto sfruttati nelle miniere di stagno e nelle piantagioni malesi, ma anche commercianti e uomini d’affari, artisti, scrittori.
Ci sono giornali cinesi, negozi cinesi con insegne cinesi vergate in eleganti caratteri tradizionali, scuole cinesi, perfino una banca cinese – la Overseas Chinese Bank.
I miei nonni non sono soli, e anzi sono diverse generazioni lontani dall’essere pionieri. Da qui si mettono alla ricerca della persona di cui hanno avuto il nome e l’indirizzo.
Li portano scritti su un pezzo di carta, il loro bene più prezioso.
Tutti i passeggeri della nave hanno un pezzo di carta simile, con il nome di un parente, o magari di un compaesano partito anni addietro che ha messo su casa da qualche parte nel Nanyang.
Ma dove andare, come trovare questi contatti? Nessuno è ancora certo della geografia in questo luogo straniero e familiare; nessuno sa quanto disti Kota Baru da Singapore, o se Jakarta sia più vicina a Malacca di Penang. Bangkok è da qualche parte anord di qui, ma a che distanza?
Restano in piedi sulle banchine, cercando di capire dove andare.
Stranieri, smarriti su un molo. Penso spesso a questa immagine.
Per esempio qualche anno fa, in Marocco, parlando con un ragazzo a Marrakech.
Non aveva nessun lavoro e nessuna speranza di trovarne uno. Voleva andare in New Jersey; aveva uno zio da quelle parti.
Il piano era raggiungere Londra, in qualche modo, e poi “semplicemente… fare un bel salto” fino all’America.
O il tassista che ho conosciuto l’ultima volta che sono stato a Jakarta, convinto che l’Inghilterra e i Paesi Bassi stessero a cinque, sei ore dall’Indonesia, e che magari sarebbe stata una buona idea trovarsi un lavoro laggiù.
Gli ho detto che il volo dura quattordici ore; non mi ha creduto.
Ha fischiato e ha detto, Cazzo, puoi arrivare in Groenlandia in tutto quel tempo.
I miei nonni. Stranieri smarriti su un molo.
Tash Aw, autore cinese-malese residente a Londra, è una voce fondamentale del nostro mondo globale.
È nato a Taipei da genitori malesi ed è cresciuto a Kuala Lumpur prima di trasferirsi in Inghilterra per frequentare l’università.
È autore di tre romanzi acclamati dalla critica, La vera storia di Johnny Lim (Fazi, 2006), Mappa del mondo invisibile (Fazi, 2009), e Five Star Billionaire (2013).
Ha vinto il Whitbread First Novel Award, il Commonwealth Writers’ Prize per l’area Asia-Pacifico, è stato longlisteddue volte per il Man Booker Prize.
I suoi libri sono stati tradotti in ventitre lingue.
I suoi racconti hanno vinto il Premio O. Henry e sono stati pubblicati in A Public Space e su Granta 100, tra gli altri.
Eugenio Nittolo, grafico, illustratore, fumettista.
Nato a Torino nel 1989, in seguito agli studi di grafica al Politecnico di Torino, nel 2011 si rifugia in Belgio per l’Erasmus, dove frequenta L’ESA Saint-Luc di Liegi in fumetto e poi l’Académie de beaux-arts in Incisione e tecniche di stampa.
Da questa esperienza ne esce fuori con un collettivo di autoedizioni (La Camaraderie), una discreta abilità nel suonare l’ukulele e una passione per le fanzines queer.